Preservativo sì o no: “La Civiltà Cattolica” sbarra la strada

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vanni-merlin
00martedì 23 maggio 2006 19:35
Preservativo sì o no: “La Civiltà Cattolica” sbarra la strada


Un articolo dell’autorevole rivista conferma che la Chiesa non allenterà il suo divieto. Nemmeno contro l’AIDS in Africa. Ma sulla stessa rivista quindici mesi fa il cardinale Martini...


di Sandro Magister





ROMA, 22 maggio 2006 – Di regola il sito web di “La Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuiti di Roma stampata con la supervisione delle autorità vaticane, non mette in rete il testo integrale degli articoli pubblicati in ogni suo numero. Lo fa solo per uno o due di essi: articoli minori, di solito dedicati alle arti o alle lettere.

Vi sono però delle eccezioni. Nel caso di un editoriale importante, oppure di un altro articolo anch’esso ritenuto di rilievo, “La Civiltà Cattolica” mette in linea fin da subito il testo integrale, al fine di far arrivare a un pubblico più ampio il pensiero delle alte autorità della Chiesa.

È quanto è accaduto per un articolo dedicato all’AIDS in Africa e all’azione della Chiesa per contrastarlo, uscito sull’ultimo numero della rivista.

Perché questa scelta? Presumibilmente perchè nelle settimane precedenti vi è stata nel mondo una ripresa delle polemiche su Chiesa e AIDS, e in particolare sulla liceità o meno dell’uso del preservativo.

A riaccendere la disputa sono stati un intervento del cardinale Carlo Maria Martini e successive indiscrezioni su un possibile documento vaticano sul tema.

Sia l’uno che le altre hanno ingenerato l’opinione che la Chiesa sia in procinto di allentare il suo divieto del preservativo, affermato dall’enciclica di Paolo VI “Humanae Vitae”.

Questo, infatti, è quanto ha detto in proposito il cardinale Martini, nel “Dialogo sulla vita” da lui pubblicato su “L’espresso” del 21 aprile:

“Bisogna fare di tutto per contrastare l’AIDS. Certamente l’uso del profilattico può costituire in certe situazioni un male minore. C’è poi la situazione particolare di sposi uno dei quali è affetto da AIDS. Costui è obbligato a proteggere l’altro partner e questi pure deve potersi proteggere. Ma la questione è piuttosto se convenga che siano le autorità religiose a propagandare un tale mezzo di difesa, quasi ritenendo che gli altri mezzi moralmente sostenibili, compresa l’astinenza, vengano messi in secondo piano, mentre si rischia di promuovere un atteggiamento irresponsabile. Altro è dunque il principio del male minore, applicabile in tutti i casi previsti dalla dottrina etica, altro è il soggetto cui tocca esprimere tali cose pubblicamente. Credo che la prudenza e la considerazione delle diverse situazioni locali permetterà a ciascuno di contribuire efficacemente alla lotta contro l’AIDS senza con questo favorire i comportamenti non responsabili”.

L’articolo pubblicato sull’ultimo numero di “La Civiltà Cattolica” è un’implicita risposta alle attese di un cambiamento di linea della Chiesa, a partire dal caso specifico illustrato dal cardinale Martini.

E la risposta è negativa. L’articolo non solo non fa alcun cenno diretto al preservativo, ma mostra che l’azione della Chiesa si muove in tutt’altra direzione, sintetizzabile nella parola “castità”. Sostiene che la Chiesa farebbe solo danno se la sua azione nel contrastare l’AIDS “apparisse di supporto a comportamenti promiscui, oltraggiosi e distruttivi”.

Che questo sia anche il pensiero di Benedetto XVI, è al di là di ogni dubbio. Negli stessi giorni in cui “La Civiltà Cattolica” diffondeva l’articolo, il papa si è richiamato due volte, in due discorsi dell’11 e del 13 maggio, all’enciclica “Humanae Vitae” di Paolo VI, definendola “profetica e sempre attuale”.

Quanto all’Africa, dove l’AIDS fa strage, è anch’essa in testa al pensiero di papa Joseph Ratzinger. Che in più occasioni s’è detto convinto che “il continente africano è la grande speranza della Chiesa”.

Il cardinale Martini è gesuita. E i gesuiti sono tra i più impegnati, da anni, nel contrastare l’AIDS in Africa, in quasi trenta paesi subsahariani.

È gesuita anche l’autore dell’articolo su “La Civiltà Cattolica”: padre Michael F. Czerny, direttore dell’African Jesuit AIDS Network, AJAN, fondato nel 2002 con sede centrale nel Kenya, a Nairobi, e autore del libro “AIDS and the Church in Africa: To Shepherd the Church, Family of God in Africa in the Age of AIDS”, edito nel 2005 a Nairobi dalle Pauline Publications Africa. L’illustrazione sopra è il logo dell’AJAN.

Ecco qui di seguito un estratto dell’articolo. La sua stesura integrale in lingua italiana, molto più ampia, è leggibile on line nel sito di “La Civiltà Cattolica”, quaderno 3741 del 6 maggio 2006.


AIDS, la maggiore minaccia per l’Africa dai tempi del traffico degli schiavi

di Michael F. Czerny S.I.


Malattia e vergogna spesso vanno a braccetto. In molte società africane alcune malattie – un esempio su tutti è la lebbra – sono per tradizione considerate ignominiose e impure. I parenti tendono a nascondere il fatto che qualche loro caro ha contratto una tale malattia, spesso fino a quando è troppo tardi.

Il virus HIV, essendo incurabile e trasmesso sessualmente, assume una particolare forza quando diffonde anche la vergogna e il marchio d’infamia. Alcuni esempi illustrano la sofferenza, l’isolamento e il rifiuto che tale malattia comporta.

Ad Abidjan, Jacques, che vive con le sue quattro mogli, si ammala con una sintomatologia di febbre, tosse e perdita di peso. Si reca all’ospedale con la moglie più giovane. Dal test risulta che ha la tbc e che è anche sieropositivo. Gli vengono fatte raccomandazioni sul suo stato di sieropositivo e viene incoraggiato a dirlo alle altre mogli. Lui non solo non lo dice, ma continua ad avere con loro rapporti sessuali.

Nello Swaziland, il principe Tfohlongwane parla in favore della segregazione dei sieropositivi e dei malati di AIDS: “Non si devono tenere le mele marce nello stesso cesto di quelle buone, altrimenti anche esse alla fine si guasteranno”.

In Nigeria, si dice che un amministratore militare abbia ordinato l’arresto e l’imprigionamento di tutti i malati di AIDS nel suo stato, affermando che tale decisione avrebbe aiutato a impedire il diffondersi del virus HIV.

In Sudafrica la comunità di Gugu Dhlamini ha ucciso una donna soltanto perché aveva reso pubblica la propria sieropositività. Le persone temevano che il fatto che vivesse tra loro avrebbe gettato un marchio d’infamia sull’intera comunità.

Il risultato del marchio d’infamia e della discriminazione è una dannosa e distruttiva separazione: i puri dagli impuri, i normali dagli anormali e, sempre, “noi” da “loro”.

Gesù rivela la sua sensibilità nei confronti di questo potente sotterfugio culturale nel suo incontro con l’adultera. Oltre ad essere portatrice per eccellenza del marchio d’infamia, essa incarna l’intera nazione israelita che reca i segni dell’infedeltà religiosa al patto con Dio. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” (Giovanni 8,7). Che cos’è la prima pietra? È il giudizio dal quale deriva il marchio d’infamia, la discriminazione, l’esclusione o la persecuzione di un altro o di gruppi di altri. Il marchio d’infamia fa parte di quella generale struttura di classificazioni e regole che noi chiamiamo cultura, e possiede un enorme potere.


* * *

Un aspetto che non può essere ignorato nella battaglia condotta dalla Chiesa contro l’HIV e l’AIDS è lo scontro di culture, che appare evidente nel modo in cui gli africani e gli occidentali considerano alcune questioni chiave.

Ad esempio, in Europa e in America la ragione principale del marchio è la paura della sofferenza e il rifiuto della morte.

Al contrario, la cultura africana – e in questo essa è vicina alla fede cristiana – accetta la sofferenza come parte della vita, non è tanto preoccupata della malattia, della sventura, dell’agonia e della morte, ed è di grande sostegno nei confronti di coloro che soffrono. Quindi il marchio deriva dalla confusione, dall’ignoranza e dalla vergogna nei confronti della sessualità.

Per gli occidentali, è la rivoluzione sessuale degli anni Sessanta a cui si deve in buona parte l’atteggiamento prevalente nei confronti della sessualità e la definizione di comportamenti e valori che ora sono esportati in tutto il mondo, sotto l’impulso della globalizzazione. È un paradigma incentrato sull’individuo e sulla sua autonomia. In senso positivo, ha permesso alle donne di giocare un ruolo più importante al di fuori delle mura domestiche e nella società, liberandole da alcune strutture patriarcali, che disconoscono le loro peculiarità e impediscono loro di far sentire la propria voce.

Ma non si può negare che l’atteggiamento occidentale nei confronti della sessualità abbia un lato oscuro, e la Chiesa è impegnata senza sosta nel porvi rimedio. Secondo la cultura dominante e globalizzata, le persone trovano il loro valore non in ciò che sono, ma in ciò che hanno e che consumano: beni, potere, piacere e prestigio. La felicità e il successo si identificano con un grande consumo. Il mito dominante della cultura della globalizzazione è che il sesso è soltanto un’altra cosa “da avere”. Il sesso riguarda soltanto il singolo, è una questione di preferenze individuali e di comportamento privato. Da un punto di vista morale è equiparato a bere e mangiare, in quanto si verifica come risposta a un appetito e unicamente per il piacere.

Questo è il comportamento occidentale. L’esperienza africana è stata molto diversa. Ci sono tabù che incoraggiano il controllo di sé in materia di sessualità. Alcune tradizioni sono contrarie alle relazioni sessuali durante la gravidanza e l’allattamento e in caso di adulterio. In molti gruppi etnici, la verginità prima del matrimonio è obbligatoria. Invece di considerare tali comportamenti fuori moda, come accade in Occidente, bisognerebbe impegnarsi per studiare il modo di incoraggiare tali pratiche attribuendo valore a questi elementi positivi della cultura africana.

In Africa la fecondità è un valore primario, perché genera la vita, e la castità è un valore in quanto protegge la vita e la qualità della vita, la quale è concepita come un legame diretto tra i vivi e i morti. La sessualità è considerata moralmente neutra e, di per sé, né buona né cattiva. Spesso viene paragonata al fuoco in una casa. Il fuoco può essere domato e usato per cucinare; in caso contrario, può bruciare il tetto e l’intera casa. L’immagine del fuoco è molto calzante e aiuta a capire perché le culture tradizionali, radicate nell’habitat locale, mantengano norme per il comportamento sessuale.

L’ideale cristiano di sessualità è un insieme dinamico di libertà e di responsabilità integrata nella personalità ad ogni stadio della vita. Il suo nome tradizionale è castità: l’unità interiore vissuta di un essere corporeo e spirituale. Castità significa modulare e ordinare la propria sessualità al servizio dei rapporti e della comunione con gli altri, dell’amore e dell’amicizia. Lo scopo della castità è di rendere ognuno capace di amare nel modo personale specifico di ogni sesso, per essere pronto ad affrontare correttamente il matrimonio, il celibato religioso o lo stato di single. La castità è un compito molto personale che richiede tutta la vita, ma il significato della sessualità va talmente al di là del singolo individuo che la castità comprende anche uno sforzo culturale: “Esiste una interdipendenza tra il miglioramento personale e il progresso della società” (Gaudium et Spes, 25).

I paesi ricchi hanno criticato duramente la Chiesa africana per non aver distribuito profilattici al fine di risolvere la crisi. Una breve risposta a tali critiche è che la morale cattolica è in realtà più fedele ai valori della cultura africana, la quale non giustifica il sesso libero né tratta la sessualità come una merce di consumo. La campagna a favore dei profilattici sa di imperialismo culturale e, in tale frangente, la posizione della Chiesa sarà sempre dalla parte dei poveri.

Ma, naturalmente, il problema è molto più complesso, e bisogna ammettere che la Chiesa si trova costretta, ai limiti della sua capacità, a parlare con coerenza e al tempo stesso in modo opportuno alla gente nelle situazioni più diverse. I laicisti optano per un approccio pragmatico, il più in uso al giorno d’oggi, fondato sul problema della salute pubblica. Dal canto suo, invece, la Chiesa è tenuta a offrire a chi la ascolta un ideale morale e spirituale piuttosto che un approccio puramente pragmatico, e ci sono molte persone che hanno deciso pregiudizialmente, quale che sia la ragione, di ignorare tale messaggio. Se qualcuno ha voltato le spalle all’ideale di responsabilità personale aperto a generare la vita, è credibile che abbia bisogno o che apprezzi il consiglio della Chiesa su come ridurre al minimo le conseguenze portatrici di morte delle sue azioni? Un tale appello alla comune decenza sarà difficilmente ascoltato, e il rischio di apparire di supporto a comportamenti promiscui, oltraggiosi e distruttivi è troppo alto perché la Chiesa possa tollerarlo.


* * *

La Chiesa non affronta la pandemia del HIV e dell’AIDS come “un problema da risolvere”. Essa piuttosto ascolta la voce del Signore che dice: “Io sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza” (Giovanni 10,10). Sull’esempio di Gesù, la Chiesa chiama i suoi fedeli all’amore disinteressato e al servizio, e quindi alla vita piena per tutti. In che modo quindi la cultura – il marchio d’infamia e la discriminazione in superficie, la sessualità nel profondo e la giustizia nella società – si pone come sfida ai cattolici africani nell’era dell’AIDS? E quale sfida riserva la cultura ai cattolici di altri paesi perché mostrino una solidarietà ben informata e ben diretta con loro?

1. Toccare i soggetti “marchiati” e gli esclusi.

Quando i genitori, i parenti, gli amici e i conoscenti scoprono che un bambino è nato con una grave disabilità fisica e mentale, non sono fortemente tentati di rifiutare, emarginare ed escludere il bambino? E, sin dal primo momento, non esiste il pericolo che al bambino venga fatto sentire il peso della delusione e della vergogna di tutti, a cominciare dai suoi genitori? E non abbiamo sentito storie strazianti di discriminazione contro bambini, adolescenti o adulti disabili, messi al bando e trattati come se non fossero esseri umani autentici? Nella misura in cui questo è vero, può darsi che ci aiuti a capire in parte come l’HIV/AIDS agisca a livello culturale. E, se siamo in grado di opporci a questa “inevitabile maledizione”, in larga misura lo dobbiamo a Jean Vanier – il fondatore di “L’Arche” e di “Fede e Luce” – che per 40 anni ha aiutato la Chiesa a scoprire che i disabili non solo sono il cuore della comunità, ma hanno un’autentica missione ecclesiale e sociale.

Vanier non ha operato questa trasformazione denunciando il marchio dei disabili, ma accettandoli, amandoli e ponendoli al centro della comunità. È bene quindi sapere che, per liberarci dal meccanismo del marchio legato all’HIV/AIDS, non basta cambiare i nostri pensieri e le nostre parole. Non è sufficiente neppure in Africa, dove politici, campioni dello sport, star della musica e leader religiosi denunciano l’emarginazione o addirittura dichiarano di essere loro stessi sieropositivi. Infatti, essendo importanti, ricchi e potenti, essi appaiono al sicuro dal pericolo della discriminazione, mentre la gente comune è troppo povera e troppo vulnerabile per godere di tale immunità.

Combattere la discriminazione significa stendere le proprie mani, toccare, fare. Come Gesù si identificò con i sofferenti, noi cristiani siamo oggi chiamati a identificarci con i vulnerabili e i sofferenti di fronte alla grande minaccia dell’HIV/AIDS. È il tipico modo di operare della Chiesa che reca consolazione agli orfani, ai vedovi, ai nonni e alle intere famiglie come ai molti vulnerabili bambini e donne le cui vite sono state devastate a causa della malattia. In altre parole, una Chiesa che include gli esclusi, attira a sé e tocca gli “appestati”.

2. Dire un “sì” radicale alla sessualità umana.

Affermare la dignità delle persone significa formare la loro moralità, spingerle verso la vita e la libertà. Questo vuol dire avere il coraggio di dire “no” a se stessi e insegnare il “no” agli altri, in nome del “sì” alla vita. Non tutti i bisogni sono legittimi, non tutte le scelte sono sagge, corrette e portatrici di vita. Il cosiddetto “cambiamento di comportamento” è il lodevole tentativo di instillare la responsabilità etica senza invocare Dio o esprimere giudizi morali. La Chiesa promuove la difesa di un comportamento retto nonché il cambiamento di ciò che ha bisogno di essere cambiato, ma ognuno è peccatore, ed essa chiama tutti alla conversione, al pentimento, alla determinazione. La morale cattolica affronta il discorso della sessualità con persone di età differenti, in modo da rendere giustizia a questo grande dono e mistero. Questo perché il tema della morale è al centro della lotta della Chiesa contro l’AIDS, della formazione dei seguaci di Cristo e del servizio alle persone in difficoltà.

Un insegnamento chiaro ed efficace spesso esige una risposta generosa. Lo scorso anno, a Durban, 72 giovani delegati di undici paesi africani si sono impegnati pubblicamente a combattere l’HIV con l’assunzione di uno stile di vita che promuova un comportamento sano e morale: “Siamo consapevoli che gli stili di vita e le società sono cambiati e possono cambiare in meglio grazie ai nostri sforzi. Perciò, con rinnovato impegno ed energia, noi intendiamo promuovere la vita tramite il rinnovamento della nostra società nel campo del comportamento, come africani che rispondono all’Africa, a cominciare da noi stessi”.

Molti, in Occidente, considererebbero tale aspirazione poco realistica, se non addirittura assurdamente fuori moda. Tuttavia, dal punto di vista di chi si trova in prima linea, tale coraggiosa analisi e tale determinata risoluzione meritano ammirazione e sostegno. Anche nelle culture e nelle consuetudini africane vi sono pecche, come, ad esempio, la vulnerabilità di bambini e adolescenti agli abusi, la condizione delle donne, lo status sessuale degli uomini. Tale critica costituisce il compito degli africani in Africa. La morale sessuale cristiana è stata forse sempre controcorrente e lo è oggi in modo nuovo nell’epoca dell’AIDS, in cui si oppone ai miti globali della sessualità. Essa, quando è necessario, mette in discussione anche gli africani e le loro culture.

3. In merito alla giustizia distributiva e alla solidarietà generosa.

In Occidente spesso molti si domandano perché l’AIDS si manifesti in modo così grave in Africa e per quale motivo le statistiche siano peggiori che in qualsiasi altro luogo del mondo.

A questa insistente domanda si può rispondere con una sola parola: povertà. Non è una risposta che incontri molto entusiasmo da parte degli occidentali. Eppure i membri poveri ed emarginati della società africana non hanno accesso all’educazione di base, all’informazione relativa all’HIV e all’AIDS, alla cura della salute, al lavoro, al trattamento e al sostegno. Una simile situazione di ingiustizia rende più persone maggiormente vulnerabili alla minaccia dell’HIV e alle tragiche conseguenze dell’AIDS di quanto non accadrebbe se avessero uno standard di vita un po’ più simile a quello occidentale.

Quando, nel 2000, il presidente sudafricano Thabo Mbeki ha affermato che la vera causa dell’AIDS è la povertà piuttosto che l’HIV, è stato ampiamente criticato. Ma c’è una buona parte di vero nella sua controversa affermazione, e i vescovi africani hanno identificato e articolato ciò che c’è di valido nella sua intuizione: il virus si sviluppa in modo direttamente proporzionale alla povertà.

Per combattere l’AIDS in maniera responsabile, dobbiamo insegnare il rispetto per il sacro valore della vita e il corretto approccio alla sessualità. Ma fare questo senza considerare le condizioni spesso estremamente difficili in cui vivono le persone in Africa significherebbe insistere sempre sulle buone intenzioni e sul solo potere della volontà, trascurando quelle forze e quelle strutture che opprimono letteralmente i poveri. Allora si cadrebbe nel moralismo senza fare nulla di positivo. Perciò, che li si chiami riduzione della povertà, sviluppo sostenibile, sfide del Millennio o lotta all’AIDS, si tratta sempre degli stessi obiettivi: la speranza è che la Chiesa in Occidente sia in grado di seguire la Chiesa in Africa nella lotta per la giustizia e la sconfitta dell’AIDS.

Conclusioni

A. Il marchio e la discriminazione sono reazioni legate all’ignoranza, alla paura, all’insicurezza, non molto diverse da quelle che avrebbe chiunque in qualunque altra parte del mondo fosse minacciato dall’HIV o da altre forme profondamente disturbanti di insufficienze umane. Il marchio e la discriminazione vanno condannati, ma occorre anche capirne le cause, e si rende perciò necessario un autentico mutamento culturale.

B. La sessualità riveste sempre e in ogni luogo una misteriosità importante, e il modo in cui gli africani si appropriano della loro sessualità dovrebbe essere ascoltato e apprezzato, come la Chiesa cerca di fare. La minaccia dell’HIV non cambia la morale della Chiesa – fondata sulle Sacre Scritture e su duemila anni di tradizione – ma la diffusione del virus rende più pressante per la Chiesa trasmettere e comunicare la propria morale ai fedeli, in particolare ai giovani, e a coloro che, esplicitamente o implicitamente, condividono i valori cristiani. C’è urgente bisogno di resistere alla cultura globalizzata e di promuovere i valori africani, e non si può non riconoscere che la morale cattolica è un modo importante per raggiungere tali obiettivi.

C. Il servizio e la giustizia sociale sono parte integrante della risposta della Chiesa all’AIDS. Questo è il motivo per cui la Chiesa, in modo del tutto naturale, unisce al ministero pastorale la cura della salute, l’esercizio della compassione e il sostegno spirituale, la morale personale, l’etica sociale e l’educazione alla prevenzione. Offrire compassione senza considerare le strutture del peccato, o predicare la morale e la prevenzione senza combattere la povertà significa disprezzare la tradizione della Chiesa e negare la sua missione di proclamare il Regno di Dio, nel quale il peccato e la morte sono sconfitti per sempre.


da: www.chiesa.espressonline.it/dettaglio.jsp?id=58722

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