PINOCCHIO (4 - 6) di Carlo Collodi

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vanni-merlin
00sabato 6 dicembre 2008 21:06
IV.

La storia di Pinocchio col Grillo-parlante, dove si vede come i ragazzi cattivi hanno a noja di sentirsi correggere da chi ne sa piú di loro.



Vi dirò dunque, ragazzi, che mentre il povero Geppetto era condotto senza sua colpa in prigione, quel monello di Pinocchio, rimasto libero dalle grinfie del carabiniere, se la dava a gambe giú attraverso ai campi, per far piú presto a tornarsene a casa; e nella gran furia del correre saltava greppi altissimi, siepi di pruni e fossi pieni d’acqua, tale e quale come avrebbe potuto fare un capretto o un leprottino inseguito dai cacciatori.

Giunto dinanzi a casa, trovò l’uscio di strada socchiuso. Lo spinse, entrò dentro, e appena ebbe messo tanto di paletto, si gettò a sedere per terra, lasciando andare un gran sospirone di contentezza.

Ma quella contentezza durò poco, perché sentí nella stanza qualcuno che fece:

— Crí-crí-crí!

— Chi è che mi chiama? — disse Pinocchio tutto impaurito.

— Sono io! —

Pinocchio si voltò, e vide un grosso grillo che saliva lentamente su su per il muro.

— Dimmi, Grillo, e tu chi sei?

— Io sono il Grillo-parlante, e abito in questa stanza da piú di cent’anni.

— Oggi però questa stanza è mia — disse il burattino — e se vuoi farmi un vero piacere, vattene subito, senza nemmeno voltarti indietro.

— Io non me ne anderò di qui, — rispose il Grillo — se prima non ti avrò detto una gran verità.

— Dimmela e spicciati.


— Guai a quei ragazzi che si ribellano ai loro genitori, e che abbandonano capricciosamente la casa paterna. Non avranno mai bene in questo mondo; e prima o poi dovranno pentirsene amaramente.

— Canta pure, Grillo mio, come ti pare e piace: ma io so che domani, all’alba, voglio andarmene di qui, perché se rimango qui, avverrà a me quel che avviene a tutti gli altri ragazzi, vale a dire mi manderanno a scuola, e per amore o per forza mi toccherà a studiare; e io, a dirtela in confidenza, di studiare non ne ho punto voglia, e mi diverto piú a correre dietro alle farfalle e a salire su per gli alberi a prendere gli uccellini di nido.

— Povero grullerello! Ma non sai che, facendo cosí, diventerai da grande un bellissimo somaro, e che tutti si piglieranno gioco di te?

— Chetati, Grillaccio del mal’augurio! — gridò Pinocchio.

Ma il Grillo, che era paziente e filosofo, invece di aversi a male di questa impertinenza, continuò con lo stesso tono di voce:


— E se non ti garba di andare a scuola, perché non impari almeno un mestiere, tanto da guadagnarti onestamente un pezzo di pane?

— Vuoi che te lo dica? — replicò Pinocchio, che cominciava a perdere la pazienza. — Fra i mestieri del mondo non ce n’è che uno solo che veramente mi vada a genio.

— E questo mestiere sarebbe?

— Quello di mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo.

— Per tua regola — disse il Grillo-parlante con la sua solita calma — tutti quelli che fanno codesto mestiere, finiscono quasi sempre allo spedale o in prigione.

— Bada, Grillaccio del mal’augurio!... se mi monta la bizza, guai a te!...

— Povero Pinocchio! mi fai proprio compassione!...

— Perché ti faccio compassione?

— Perché sei un burattino e, quel che è peggio, perché hai la testa di legno. —

A queste ultime parole, Pinocchio saltò su tutt’infuriato e preso di sul banco un martello di legno, lo scagliò contro il Grillo-parlante.

Forse non credeva nemmeno di colpirlo; ma disgraziatamente lo colse per l’appunto nel capo, tanto che il povero Grillo ebbe appena il fiato di fare crí-crí-crí, e poi rimase lí stecchito e appiccicato alla parete.


V.

Pinocchio ha fame e cerca un uovo per farsi una frittata;

ma sul piú bello, la frittata gli vola via dalla finestra.



Intanto cominciò a farsi notte, e Pinocchio, ricordandosi che non aveva mangiato nulla, sentí un’uggiolina allo stomaco, che somigliava moltissimo all’appetito.

Ma l’appetito nei ragazzi cammina presto, e di fatti, dopo pochi minuti, l’appetito diventò fame, e la fame, dal vedere al non vedere, si convertí in una fame da lupi, in una fame da tagliarsi col coltello.


Il povero Pinocchio corse subito al focolare, dove c’era una pentola che bolliva, e fece l’atto di scoperchiarla, per vedere che cosa ci fosse dentro: ma la pentola era dipinta sul muro. Immaginatevi come restò. Il suo naso, che era già lungo, gli diventò piú lungo almeno quattro dita.

Allora si dètte a correre per la stanza e a frugare per tutte le cassette e per tutti i ripostigli in cerca di un po’ di pane, magari un po’ di pan secco, un crosterello, un osso avanzato al cane, un po’ di polenta muffita, una lisca di pesce, un nocciolo di ciliegia, insomma qualche cosa da masticare: ma non trovò nulla, il gran nulla, proprio nulla.

E intanto la fame cresceva, e cresceva sempre: e il povero Pinocchio non aveva altro sollievo che quello di sbadigliare, e faceva degli sbadigli cosí lunghi, che qualche volta la bocca gli arrivava fino agli orecchi. E dopo avere sbadigliato, sputava, e sentiva che lo stomaco gli andava via.


Allora piangendo e disperandosi, diceva:

— Il Grillo-parlante aveva ragione. Ho fatto male a rivoltarmi al mio babbo e a fuggire di casa... Se il mio babbo fosse qui, ora non mi troverei a morire di sbadigli! Oh! che brutta malattia che è la fame! —

Quand’ecco che gli parve di vedere nel monte della spazzatura qualche cosa di tondo e di bianco, che somigliava tutto a un uovo di gallina. Spiccare un salto e gettarvisi sopra, fu un punto solo. Era un uovo davvero.

La gioia del burattino è impossibile descriverla: bisogna sapersela figurare. Credendo quasi che fosse un sogno, si rigirava quest’uovo fra le mani, e lo toccava e lo baciava, e baciandolo diceva:

— E ora come dovrò cuocerlo? Ne farò una frittata!... No, è meglio cuocerlo nel piatto!... O non sarebbe piú saporito se lo friggessi in padella? O se invece lo cuocessi a uso uovo a bere? No, la piú lesta di tutte è di cuocerlo nel piatto o nel tegamino: ho troppo voglia di mangiarmelo! —

Detto fatto, pose un tegamino sopra un caldano pieno di brace accesa: messe nel tegamino, invece d’olio o di burro, un po’ d’acqua: e quando l’acqua principiò a fumare, tac!... spezzò il guscio dell’uovo, e fece l’atto di scodellarvelo dentro.

Ma invece della chiara e del torlo scappò fuori un pulcino tutto allegro e complimentoso, il quale facendo una bella riverenza disse:

— Mille grazie, signor Pinocchio, d’avermi risparmiata la fatica di rompere il guscio! Arrivedella, stia bene e tanti saluti a casa! —

Ciò detto, distese le ali, e, infilata la finestra che era aperta, se ne volò via a perdita d’occhio.

Il povero burattino rimase lí, come incantato, cogli occhi fissi, colla bocca aperta e coi gusci dell’uovo in mano. Riavutosi, peraltro, dal primo sbigottimento, cominciò a piangere, a strillare, a battere i piedi in terra per la disperazione, e piangendo diceva:

— Eppure il Grillo-parlante aveva ragione! Se non fossi scappato di casa e se il mio babbo fosse qui, ora non mi troverei a morire di fame! Oh! che brutta malattia che è la fame!... —

E perché il corpo gli seguitava a brontolare piú che mai, e non sapeva come fare a chetarlo, pensò di uscir di casa e di dare una scappata al paesello vicino, nella speranza di trovare qualche persona caritatevole, che gli facesse l’elemosina di un po’ di pane.



VI.

Pinocchio si addormenta coi piedi sul caldano,

e la mattina dopo si sveglia coi piedi tutti bruciati.




Per l’appunto era una nottataccia d’inferno. Tonava forte forte, lampeggiava come se il cielo pigliasse fuoco, e un ventaccio freddo e strapazzone, fischiando rabbiosamente e sollevando un immenso nuvolo di polvere, faceva stridere e cigolare tutti gli alberi della campagna.

Pinocchio aveva una gran paura dei tuoni e dei lampi: se non che la fame era piú forte della paura: motivo per cui accostò l’uscio di casa, e presa la carriera, in un centinaio di salti arrivò fino al paese, colla lingua fuori e col fiato grosso, come un cane da caccia.

Ma trovò tutto buio e tutto deserto. Le botteghe erano chiuse; le porte di casa chiuse; le finestre chiuse, e nella strada nemmeno un cane. Pareva il paese dei morti.

Allora Pinocchio, preso dalla disperazione e dalla fame, si attaccò al campanello d’una casa, e cominciò a sonare a distesa, dicendo dentro di sé:

— Qualcuno si affaccerà. —

Difatti si affacciò un vecchino, col berretto da notte in capo, il quale gridò tutto stizzito:

— Che cosa volete a quest’ora?

— Che mi fareste il piacere di darmi un po’ di pane?

— Aspettami costí che torno subito, — rispose il vecchino, credendo di avere da fare con qualcuno di quei ragazzacci rompicolli che si divertono di notte a sonare i campanelli delle case, per molestare la gente per bene, che se la dorme tranquillamente.

Dopo mezzo minuto la finestra si riaprí, e la voce del solito vecchino gridò a Pinocchio:

— Fatti sotto e para il cappello. —

Pinocchio si levò subito il suo cappelluccio; ma mentre faceva l’atto di pararlo, sentí pioversi addosso un’enorme catinellata d’acqua che lo annaffiò tutto dalla testa ai piedi, come se fosse un vaso di giranio appassito.

Tornò a casa bagnato come un pulcino e rifinito dalla stanchezza e dalla fame: e perché non aveva piú forza da reggersi ritto, si pose a sedere, appoggiando i piedi fradici e impillaccherati sopra un caldano pieno di brace accesa.

E lí si addormentò; e nel dormire, i piedi che erano di legno gli presero fuoco, e adagio adagio gli si carbonizzarono e diventarono cenere.


E Pinocchio seguitava a dormire e a russare, come se i suoi piedi fossero quelli d’un altro. Finalmente sul far del giorno si svegliò, perché qualcuno aveva bussato alla porta.

— Chi è? — domandò sbadigliando e stropicciandosi gli occhi.

— Sono io! — rispose una voce.

Quella voce era la voce di Geppetto.





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