I rabbini d'Italia cercano pubblicità

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proRatzinger
00mercoledì 14 gennaio 2009 19:45
Di nuovo il Santo Padre Benedetto XVI sotto accusa da parte dei rabbini
Dialogo con gli Ebrei. C'è chi dissente con il papa
Scritto da Simone Baroncia
Mercoledì 14 Gennaio 2009 15:55
Sabato 17 gennaio è la giornata del dialogo ebraico-cristiano, ma quest’anno i rabbini italiani non parteciperanno all’incontro, perché, come afferma il rabbino capo di Venezia Elia Enrico Richetti sul mensile dei gesuiti ‘Popoli’, con papa Benedetto XVI il dialogo è ritornato indietro di 50 anni. Il casus belli è stata la reintroduzione del Messale tridentino, spurgato dai termini più offensivi. Da qui la presa di posizione dei rabbini italiani.

“Fin dal primo momento, l'Assemblea dei rabbini d'Italia ha preso una pausa di riflessione, sospendendo temporaneamente gli incontri interreligiosi. I mesi successivi sono stati caratterizzati da un susseguirsi di contatti, incontri e mediazioni con diversi esponenti, anche ad alto livello, del mondo ecclesiastico, alcuni dei quali si sono dimostrati sinceramente preoccupati per il futuro di un dialogo che stava procedendo in maniera fruttuosa e che registrava un allargarsi del senso di rispetto e di pari dignità delle fedi”. Le risposte chiarificatrici non hanno soddisfatto i rabbini: “Se io ritengo, sia pure in chiave escatologica, che il mio vicino debba diventare come me per essere degno di salvezza, non rispetto la sua identità. Non si tratta, quindi, di ipersensibilità: si tratta del più banale senso del rispetto dovuto all'altro come creatura di Dio. Se a ciò aggiungiamo le più recenti prese di posizione del Papa in merito al dialogo, definito inutile perché in ogni caso va testimoniata la superiorità della fede cristiana, è evidente che stiamo andando verso la cancellazione degli ultimi cinquant'anni di storia della Chiesa. In quest'ottica, l'interruzione della collaborazione tra ebraismo italiano e Chiesa è la logica conseguenza del pensiero ecclesiastico espresso dalla sua somma autorità”. E conclude sui futuri rapporti: “È vero, non sta agli ebrei insegnare ai cristiani come devono pregare o che cosa devono pensare, e nessuno fra gli ebrei o i rabbini italiani pretende di farlo. Ma è chiaro che dialogare vuol dire rispettare ognuno il diritto dell'altro ad essere se stesso, cogliere la possibilità di imparare qualcosa dalla sensibilità dell'altro, qualcosa che mi può arricchire. Quando l'idea di dialogo come rispetto (non come sincretismo e non come prevaricazione) sarà ripristinata, i rabbini italiani saranno sempre pronti a svolgere il ruolo che hanno svolto negli ultimi cinquant'anni”. La risposta a continuare nel dialogo arriva da Gerusalemme dal gesuita Collin, responsabile della comunità cattolica di espressione ebraica di Beersheva, che afferma: “Capiamo il dolore ma credo si tratti di una reazione emozionale. Il dialogo deve continuare, è importante anche riferire delle ferite che in questo processo si possono provocare all’altro. Non partecipare non sembra la risposta giusta… Il Papa non ha compiuto passi indietro”.
proRatzinger
00mercoledì 14 gennaio 2009 19:53
Ormai è diventata una tradizione consolidata per i rabbini d'Italia: ha fatto scuola il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni. La mania tutta rabbinica di cercare pubblicità e spazio nei mass-media, quotidiani, web,... attaccando l'Augusto Pontefice Benedetto XVI, è sempre più in voga. Tanto che da Roma questa moda ha preso anche Venezia: il rabbino capo di Venezia, tale Elia Enrico Richetti, ha affermato che il dialogo ebraico-cristiano è ritornato a mezzo secolo fa grazie al Pontefice. Niente di più falso, e tutto ciò solo per il ripristino della preghiera per gli ebrei che, anche spurgata, è sempre presa di mira. Si mettessero l'anima in pace questi rabbini egocentrici e irrispettosi verso il Papa, uomo di dialogo e di pace, che come Cohen, invitato al Sinodo dei Vescovi lo scorso ottobre, ha pugnalato alle spalle Benedetto XVI con affermazioni false e tendenziose sul Pastor Angelicus, Pio XII: nessuno di altre fedi o confessioni può e deve insegnare ai cattolici come pregare! Punto. E basta con questi vili attacchi! Aria fritta, miei cari signori! Si vorrebbe che il Papa indossasse la kippa e scorrazzasse per Roma bruciando il Nuovo Testamento e srotolando la Torah! Utopia sciocca e impossibile! [SM=x40796] [SM=x40796] [SM=x40796] [SM=x40795] [SM=x40795] [SM=g27812] [SM=g27812] [SM=g27812]
proRatzinger
00lunedì 19 gennaio 2009 15:39
Non si riesce a vedere l'intervento di Blatta orientalis!!! Dice che c'è, ma non riesco a vederlo! [SM=g27825]
Sihaya.b16247
00sabato 24 gennaio 2009 16:42
Re:
proRatzinger, 19/01/2009 15.39:

Non si riesce a vedere l'intervento di Blatta orientalis!!! Dice che c'è, ma non riesco a vederlo! [SM=g27825]



Guarda, qualche intervento può essere che è andato perso dopo la ristrutturazione del forum!

proRatzinger
00domenica 25 gennaio 2009 16:10
[G]Il rabbino Rosen: «Con Williamson contaminata l'intera Chiesa»
ROMA (24 gennaio) - La precisazione del portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, sulla non condivisione da parte della Santa Sede delle idee negazioniste di Willliamson, non è bastata. Se il portavoce del ministero degli esteri israeliano Yigal Palmor, si è trincerato dietro un no comment, affermando che la riammissione dei lefebvriani «non è una questione che riguarda i rapporti tra i due Stati», il rabbino David Rosen, personalità coinvolta nel dialogo tra ebrei e cattolici, ha voluto definire la revoca della scomunica a Williamson come «un passo che contamina l'intera Chiesa», se quest'ultima non esige dal vescovo la ritrattazione di ciò che ha detto sulla Shoah.

L'intera Chiesa contaminata. Secondo Rosen, nella decisione pontificia «c'è stata una superficialità» che mostra «gravi lacune nel funzionamento interno del Vaticano». E «accettare una persona chiaramente antisemita è farsi gioco di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II e di tutti i Papi». Per il rabbino non basta che il Vaticano si proclami fedele alla dichiarazione conciliare Nostra Aetate (che 40 anni fa segnò una svolta nei rapporti col mondo ebraico): «Non conta ciò che il Vaticano dice, conta ciò che fa». E fino a quando non esige «una ritrattazione» delle dichiarazioni revisioniste di Williamson «è l'intera Chiesa che resta contaminata».

Imbarazzo. Per mascherare l'imbarazzo la Radio Vaticana ha scelto di diffondere un ampio servizio sulla «forte attenzione» sempre riservata da Benedetto XVI all'ebraismo e alla memoria della Shoah. Anche qui è stato ripetuto che le dichiarazioni negazioniste di Williamson rappresentano solo «posizioni personali, totalmente non condivisibili, e che tanto meno riguardano il magistero pontificio e le posizioni della Chiesa cattolica».

L'ennesimo incidente. Il riallacciamento del dialogo era già stato complicato dalle polemiche sulla "preghiera per gli Ebrei" del Venerdì Santo e sulla causa di beatificazione di Pio XII, con la conseguente decisione dei rappresentanti ebraici italiani di non partecipare all'annuale Giornata del Dialogo promossa dalla Cei.

proRatzinger
00domenica 25 gennaio 2009 16:21
E di nuovo ci risiamo: ORA BASTAAAAAAAAAA!!!! Basta accusare Sua Santità Benedetto XVI per il suo magistero. Il vittimismo di taluni ebrei che cercano sempre di screditare, vituperare, sputare in faccia al dialogo, vomitare ai piedi del Sommo Pontefice ubbie e sciocchezze di ogni sorta, è giunto al limite. Ebbene, un bene pregare per il bene degli ebrei nella preghiera del Venerdì Santo per togliere l'accecamento dal popolo della PRIMITIVA ALLEANZA; e un bene accogliere in seno della Chiesa i lefebvriani. Due grandi perle del pontificato ratzingeriano. E ora basta, miei cari, veramente basta blaterare alle spalle del Romano Pontefice!!!! Voi non lo volete il dialogo, voi siete i primi a farvi beffe del dialogo e non si vede perchè i cattolici devono sempre fare il primo passo. Di Segni, Rosen come Cohen prima di loro, sono rabbini che disprezzano il dialogo e costruiscono castelli di carte per giustificare la loro deprecabile condotta nei confronti del cattolicesimo. Si vergognino!!!! E vadano a rispolverare il Talmud che contiene ignominie nei confronti dei cristiani, chiamati Goim. Si vadano a leggere:
MAIENE HAIESCHUAH - Fontane del Salvatore. Uno squisito commentario su Daniele del rabbino Isaac Abarbanel. Vi si trovano numerose dispute contro i cristiani. Stampato nel 1551.
NIZZACHON - Vittoria. Attacchi contro i crisitani e i quattro Vangeli. Autore: rabbino Lipman. Stampato nel 1559.
SEPHER IKKARIM - Libro sui fondamentali o articoli di fede. Contiene un durissimo attacco contro la fede cristiana.
TOLDOTH IESCHU - le Generazioni di Gesù. Un opuscolo pieno di bestemmie e maledizioni. Contiene la storia di Cristo. Pieno di espressioni false e tendenziose.
proRatzinger
00domenica 25 gennaio 2009 16:35
Il Talmud smascherato
Vorrei ora proporre alcuni stralci del "Talmud smascherato" di padre Pranaitis su quello che dice il Talmud nei confronti dei cristiani. Cristo è chiamato nel Talmud: quell'uomo, una certa persona, il falegname figlio di un falegname, quello che fu appeso. Padre Pranaitis scrive che nel Talmud, Gesù Cristo è presentato come: illeggittimo e concepito durante il periodo mestruale; che aveva l'anima di Esaù; pazzo e folle; stregone e mago, idolatro, seduttore, crocifisso, seppellito all'Inferno, idolo. Gli insegnamenti di Cristo sono: falsità, eresia, impossibili da osservare. I cristiani nel Talmud sono chiamati: idolatri, adoratori di stelle e pianeti, servi di idoli, eretici, edomiti, stranieri, idioti, gente di mare, carne e sangue, epicurei, samaritani. Il Talmud insegna sui cristiani che sono: idolatri, peggio dei Turchi, assassini, fornicatori, immondi, paragonati ad escrementi, non simili agli uomini, ma alle bestie, diversi dagli animali solo per la forma, animali, peggio degli animali, si propagano come bestie, figli del diavolo, maligni e immondi, vanno all'Inferno. I preti sono chiamati Galachim, rasati; le Chiese sono Beth Tiflah, casa di vanità e stoltezza, Beth Abhodah Zarah, casa dell'idolatria, Beth Hatturaph Schel Letsim, casa del ridere maligno. I precetti che prescrive sono: i cristiani devono essere evitati; l'ebreo non deve salutare il cristiano o ricambiare il suo saluto; non deve presentarsi di fronte a un giudice cristiano; non si possono usare i cristiani come testimoni; non bisogna averli come medici, insegnanti, barbieri, ostetriche, devono essere sterminati. Eccetera, eccetera. Inviterei a leggere questo libricino che si può trovare su www.apologetica.altervista.org/talmud_smascherato.htm.
proRatzinger
00martedì 27 gennaio 2009 16:38
Pio XII beato, ogni rinvio danneggia la Chiesa

Quando è troppo, è troppo. Caro Presidente Gattegna, è assurdo intristirsi per la riconciliazione tra i cristiani, per il rientro dei lefevriani nella cattolicità, piuttosto si offenda con noi della offensiva e indegna dichiarazione polemica del Museo Yad Vashem.Home
prec succ
Spieghi Lei la strana coincidenza tra sinistrissimi opinionisti, pseudoagnostici professorini del San Raffaele e un certo mondo ultraortodosso ebraico. A settembre scorso una banalissima e scontatissima considerazione di Mons. Fisichella sugli errori storici, riferiti alla inerzia di Pio XII, nel Museo Yad Vashem, aprì le danze di polemiche assurde. La prima colpa è di coloro che in Vaticano tengono aperta la "pratica di beatificazione" di Pio XII. Taluni ambienti ebraici non l'accetteranno mai. Se Pio XII è beatificabile bene, diversamente si chiuda la pratica.
Prima della visita di Mons. Fisichella c'erano state le demenziali richieste di taluni settori dell'ebraismo di modificare totalmente le preghiere della Quaresima dei cattolici. Ora il Museo dell'Olocausto, dopo le polemiche sulla scivolata di S.E. Martino sulla Guerra di autodifesa israeliana a Gaza, torna all'attacco. Il Papa riaccoglie paternamente la congregazione di Lefevre nella Chiesa Cattolica. Tra i quattro Vescovi ripresi, c'è un Tizio che pare, dico pare, abbia forse parlato in termini revisionistici dell'Olocausto. Ciò non ha nulla a che vedere col provvedimento della Congregazione dei Vescovi e il reintegro nella Chiesa Cattolica. Eppure, come già da qualche giorno rimbalzava sui quotidiani di lingua inglese, la notizia delle eventuali opinioni (verso le quali nessun inquilino del Vaticano e nemmeno il sottoscritto è comprensivo), scatena una ridda di polemiche inconsistenti tra una parte del mondo ebraico e la Santa Sede. Il fuoco viene di proposito riacceso, nuovo petrolio viene versato. Cui prodest? Non si vuole che Bendetto XVI vada in Terra Santa? Bene, il Cardinale Ratzinger se ne farà una ragione, andrà in altri santi luoghi o magari visiterà misticamente i luoghi santi della vita di Gesù. Chiedere alla Chiesa Cattolica che messaggio dà sull'"Olocausto" è un insulto che la dice lunga sulla buona fede di un certo mondo ebraico anticattolico. Il "reintegro è una questione interna della Chiesa", le vergognose opinioni storiche del Vescovo Williamson sono inacettabili ma non fanno parte dell'esame sull'appartenenza alla dottrina della Chiesa.
Noi non le conosciamo, se sono revisioniste le consideriamo folli e tuttavia, è certo che le dichiarazioni che vengono dal Museo Ebraico per eccellenza, la bugiarda domanda tradisce una certissima ed eclatante ignoranza storica e volontà polemica. Altroché revisionismo, da Israele arriva la richiesta di chiarimenti sull'opinione della Chiesa sull'Olocausto? Contate i nostri milioni di morti nelle camere a gas e nei campi di concentramento, noi e la nostra Chiesa abbiamo la medesima opinione di Padre Massimiliano Kolbe. Senza polemica, schiettezza fraterna.
proRatzinger
00domenica 1 febbraio 2009 15:30
E' intollerabile e grave il clima che aleggia sul Vaticano. Altrettanto grave come le affermazioni di Williamson. E come la campagna denigratoria dei mass-media nei confronti del Sommo Pontefice. Il Papa non è libero di svolgere la sua missione di Vicario di Cristo in Terra, di legare e sciogliere in terra ciò che sarà poi legato e sciolto in Cielo. E tra questi compiti di legare e sciogliere propri del Sommo Pontefice c'è il ritiro di una scomunica: da 20 anni, cioè dal 1988, su Marcel Lefebvre e i suoi seguaci, i lefebrvriani, chiamati così dal cognome del prelato, grava la scomunica comminata da Sua Santità il Servo di Dio Giovanni Paolo II, dopo la sospensione "a divinis" comminata da Sua Santità il Servo di Dio Paolo VI. Marcel Lefebvre e seguaci furono scomunicati dalla sede apostolica non per le loro idee in merito al Concilio Vaticano II ma perchè Lefebvre stesso consacrò senza autorizzazione pontificia, quindi della Congregazione per i Vescovi, quattro nuovi vescovi. La sospensione "a divinis" fu comminata da Paolo VI nel 1976 perchè l'allora arcivescovo di Losanna, Friburgo e Ginevra, Sua Eccellenza Rev.ma Pierre Mamie, si oppose alla nuova fraternità fondata da Lefebvre e che celebrava in quello che verrà chiamato Vetus Ordo e che oggi si chiama forma extra-ordinaria della SS. Messa. Questa, in breve, la storia del caso Lefebvre, questi i motivi della scomunica e della sospensione "a divinis". Sua Santità Benedetto XVI, sabato 24 Gennaio 2009, ha reso nota la remissione della scomunica per QUESTI ATTI SUDDETTI. Punto. Le idee personali non c'entrano affatto, la scomunica è stata rimessa perchè è stata perdonata la consacrazione episcopale illecita. Ora, che si vuole alzare una bufera contro il Papa, che si vuole manipolare la verità a piacimento e far capire agli ignoranti e agli stolti, soprattutto ai giovani che non sanno e non hanno vissuto questo caso 20 anni fa, che il Papa ha rimesso la scomunica perchè è un tradizionalista e perchè non gli importa nulla del dialogo con gli ebrei, perchè è un antisemita, come i nostri "fratelli maggiori", che cedono sempre al melenso vittimismo politico e culturale, ci vogliono far credere, è chiaro a tutti. Che i mass-media ingigantiscano come bolle di sapone notizie microscopiche, che lingue bugiarde, insidiose, odiose, deprecabili, sciocche, ottuse, passatiste, retrograde e più tradizionaliste di quanto attribuiscano allo stesso Papa, in quanto credono che tedesco vuol dire nazista, sfruttino a loro piacimento l'imbecillità della gente e la loro inesistente cultura religiosa e storica per manipolarle a loro piacimento, anche ciò è chiaro a tutti. Qualsiasi persona accorta sarebbe capace di vedere che c'è lo zampino dell'odio e dei soldi, vuoi per vendere i giornali, vuoi perchè il Papa va sempre contraddetto e denigrato. Che poi il vescovo Williamson e quel prete dell'Alt'Italia si siano dimostrati tanto ottusi e imbecilli quali i suddetti individui citati, è un'altra storia. L'aver rimesso la scomunica ai lefebvriani e non a quel tizio o a quell'altro in particolare, è un atto che non ha niente a che vedere con le idee personali, come ci ha ricordato padre Lombardi. O meglio, gli unici ad essere stati colpiti dalla scomunica del 1988 furono i quattro neovescovi e a quelli è stata tolta, ma per indicare che tolta ai pastori lefebvriani, i lefebvriani tutti erano riammessi nella Chiesa Cattolica. I frutti marci ci sono e ce ne sono sempre stati, come Williamson, ma non si può e non si deve fare di tutta l'erba un fascio: sarebbe da stupidi! Come se uno dei parlamentari negasse l'Olocausto, non è che tutto il Parlamento è marcio e va condannato. Purtroppo oggi non si distingue tra ciò che è l'individuo e ciò che è la collettività: ubbie e stoltezze d'ogni sorta formano un'impalcatura mendace che grava come macigno sulla nostra testa. Veniamo poi alla reazione degli ebrei, spropositata e unilaterale: rifriggendo il proprio vittimismo, che sinceramente ha scocciato, e invocando la pace e il dialogo, si vedevano in televisione con il Talmud in mano a piangere perchè il Papa li aveva trattati in quel modo "osceno" e che aveva rimesso in auge la preghiera per gli ebrei, pro perfidis Iudaeis. Ebbene, forse loro non sanno che la parola perfidis vuol dire "colui che non rispetta i patti" e tra l'altro è stata comunque tolta apposta; ed è tremendamente grave come loro non sappiano che il Talmud ci considera peggio delle bestie! Non solo. Ma loro non sanno neanche che solo noi cattolici ci adoperiamo per il dialogo interreligioso, anche perchè loro ci considerano ancora pagani e hanno una religione non certo universale, ma settaria ed ereditaria. Io li inviterei a tacere, pur dissentendo con quello che ha detto Williamson: perchè le accuse non sono state rivolte tanto a Williamson, che a buon ragione deve essere preso a calci nel sedere, ma al Papa: ciò dimostra la loro grettezza! Ogni momento è buono per attaccare il Papa. Questo lo abbiamo capito, grazie agli eloquenti interventi dei rabbini Di Segni, Cohen a suo tempo, Rosen e Co. Dopo la reazione dei mass-media, degli ebrei, veniamo alla stessa Chiesa Cattolica: molti uomini di Curia non parlano, ma è ben chiaro che remano contro il Pontefice regnante. Soprattutto quelli vicini all'estrema sinistra della Chiesa, la cosiddetta ala progressista. Ebbene, sono loro il vero cancro incurabile della Chiesa Cattolica! Non per essere progressisti, ma per ciò che in questo aggettivo è significato e determinato: estrema e ostinata disobbedienza al Romano Pontefice. Sempre per quanto riguarda la campagna mediatica contro il Papa, ricordiamo lo "Spiegel" e altri giornali tedeschi che non si stancano di dire che il Papa vive assorto tra le nuvole, in un mondo tutto suo dove dogmi e tradizione regnano: se questi "giornalisti", pagliacci relativisti e laicisti, non lo avessero capito, la Chiesa si fonda su dogmi e Vangelo e non va à la page come la copertina dei loro giornali. Detto questo, dico: il Papa ha fatto ciò che ha fatto per il bene della Chiesa ed approvo in toto! Deve continuare incurante delle critiche perchè qui si vede come la popolazione italiana ed europea non è libera, non sa cosa lontanamente sia la libertà di pensiero, in quanto si fa soggiogare da questi quattro clown falsi giornalisti: non lo sa a tal punto che il Papa non è potuto andare alla Sapienza l'anno scorso. E ciò che non viene accordato neanche al Papa è proprio la libertà stessa, negata dalla loro manipolazione e i loro indottrinamenti culturali. Ma il Papa fa orecchie da mercante e fa bene! Williamson e chi la pensa come lui va allontanato dalla Chiesa sicuramente, ma in un secondo momento, quando la Fraternità Sacerdotale di S. Pio X avrà trovato legittima collocazione nella galassia cattolica. Che il Papa sia incapace di intendere e di volere, circondato da una corte di yesmen inutili e disastrosi, non è vero, non è credibile. Il Papa intende, ordina, guida, protegge e parla da solo e in piena ratio. Ai soliti corvi e cornacchie, pagliacci e saltimbanchi, piovre e pupazzi di lobby sinistrorse e destrorse, ai mass-media burattini, ai burattinai, dico: Vergogna! E silenzio totale!
proRatzinger
00martedì 3 febbraio 2009 15:16
Dietro al vescovo negazionista un complotto contro il Papa
Roma - È un dossier ufficioso, di poche pagine, dedicato alla genesi del caso Williamson, molto letto in questi giorni nei sacri palazzi. Un dossier che ha raggiunto le scrivanie che contano oltretevere e che mette insieme date e circostanze, lasciando intendere che quanto avvenuto nei giorni scorsi non sia solo frutto di una serie di coincidenze. La realizzazione e poi la messa in onda dell’intervista del prelato che negava le camere a gas e la realtà dei milioni di ebrei morti nella Shoah, alla vigilia della revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani - secondo il dossier - sarebbe stata in qualche modo «pilotata» da ambienti che volevano mettere in difficoltà Benedetto XVI. Ambienti che sarebbero stati aiutati da qualche oppositore interno, contrario alla riconciliazione con la Fraternità San Pio X.

Nel rapporto non si minimizzano le assurde parole pronunciate da Williamson, né l’ulteriore gravità della coincidenza temporale con il Giorno della Memoria, che ha particolarmente ferito la sensibilità del mondo ebraico, ma si lascia intravedere la possibilità che vi siano stati interventi mirati a creare il caso. Williamson, si legge nel dossier, viene intervistato il 1° novembre 2008 «presso il seminario bavarese della Fraternità San Pio X». Il vescovo si trova a Ratisbona, dov’è giunto per ordinare prete un pastore protestante svedese. Il vescovo viene raggiunto dal giornalista Ali Fegan, della trasmissione televisiva «Uppgrad Gransking» («Missione Ricerca»). Parlano un’ora. A un certo punto, Fegan richiama alla memoria di Williamson certe dichiarazioni negazioniste sulle camere a gas, rilasciate molti anni prima in Canada. Il vescovo risponde dicendo le enormità che sappiamo, sapendo che le sue parole, in quel Paese, rappresentano un reato: «Per le cose che dico potreste portarmi in carcere visto che siamo in Germania...».

L’intervista va in onda il 21 gennaio, lo stesso giorno della firma del decreto di revoca della scomunica. Gli autori del programma assicurano che si è trattato di una coincidenza, mentre il «dossier Williamson» non esclude la possibilità che la notizia della revoca della scomunica sia stata fatta in qualche modo arrivare alla televisione svedese. Nel corso della trasmissione viene intervistata anche la giornalista francese Fiammetta Venner, nota attivista del movimento omosessuale, impegnata in campagne «pro choice». Insieme alla compagna Caroline Fourest – con la quale condivide molte battaglie anticlericali nonché la vicinanza al Grande Oriente di Francia – nel settembre scorso, alla vigilia della visita di Benedetto XVI a Parigi e Lourdes, aveva dato alle stampe un volume intitolato Les Nouveaux Soldats du pape. Légion du Christ, Opus Dei, traditionalistes, durissimo contro Papa Ratzinger e contro i lefebvriani, accusati di connessioni con l’ambiente politico dell’estrema destra francese. Il dossier insiste sulla genesi francese del caso e sul ruolo avuto da Venner e Fourest nell’intera vicenda. Il 20 gennaio, alla vigilia della messa in onda, il settimanale tedesco Der Spiegel anticipa i contenuti dell’intervista. E arriverà pure a scrivere che «il Consiglio Centrale degli ebrei in Germania» fosse «stato informato» in precedenza delle dichiarazioni negazioniste del vescovo.

Ormai il decreto è già scritto ed è stato personalmente consegnato dal cardinale Giovanni Battista Re nelle mani di monsignor Bernard Fellay, il superiore della Fraternità San Pio X, convocato a Roma per l’occasione. Dunque, quando la notizia dell’intervista di Williamson comincia a diffondersi, non è più possibile correre ai ripari. Il 20 gennaio la diocesi cattolica di Stoccolma e il superiore dei lefebvriani tedeschi pubblicano due distinti comunicati per deplorare le dichiarazioni di Williamson e condannare ogni forma di antisemitismo. La notizia è ormai di dominio pubblico, ma la sua portata e soprattutto le sue conseguenze non vengono avvertite nei sacri palazzi.

Un intricato «giallo», insomma, oppure una serie di coincidenze? Il dossier fatto circolare in Vaticano non contiene prove, si limita a confrontare ipotesi e dati di fatto. Di certo però non sono in pochi, oltretevere, a pensare che il «caso Williamson» non sia stato un caso.

Da La Stampa.it.
proRatzinger
00martedì 3 febbraio 2009 15:20
Qualcosa non torna nei rapporti tra gli ebrei italiani e la Santa Sede
Il vaticanista del «Giornale», l’ottimo Andrea Tornielli, ha confessato recentemente di non riuscire a capire, pur avendoci riflettuto a lungo, le ragioni del progressivo irrigidimento dell’ebraismo italiano (o almeno di una parte dei suoi rappresentanti) nei rapporti con la Chiesa cattolica: tanto più di fronte a un papa come Benedetto XVI, che «più dei suoi predecessori ha riflettuto e scritto sul legame imprescindibile e non assimilabile a quello di altre religioni che unisce ebrei e cristiani». La nuova versione in latino della preghiera del venerdì santo Et pro Judaeis non sembra costituire un salto di qualità rispetto a quella presente nel c.d. messale di Paolo VI, né il giudizio attuale della Santa Sede sulla politica dello Stato di Israele appare più freddo e distaccato rispetto al passato: anzi, semmai, sembra vero il contrario. Dopo lo scritto di Tornielli, si è avuta la vicenda della remissione della scomunica ai vescovi lefebvriani, fra i quali uno risulta aver fatto affermazioni negazioniste: vicenda che è stata evidentemente gestita in modo tutt’altro che perfetto da parte dei più diretti collaboratori di Benedetto XVI, ma sospettare che essa comporti una qualche tolleranza per opinioni di quel tipo risulta evidentemente una forzatura polemica. Insomma per Tornielli, le ragioni di questo irrigidimento restano un «mistero».

Devo dire che non proprio self-evident, per non pochi aspetti, sono apparse anche a me, che pure questo irrigidimento avvertivo nell’aria già da qualche mese. Ho cercato di ragionarci sopra, seguendo gli articoli dello stesso Tornielli e di alcuni altri che reputo affidabili (nel bombardamento mediatico a cui siamo quotidianamente sottoposti dobbiamo pur fare delle scelte) e sono giunto a formulare alcune ipotesi meno legate alla contingenza: qualunque fondamento esse abbiano, sono comunque ispirate dal massimo rispetto e dalla consapevolezza, viva anche in un quidam de populo come chi scrive, dell’importanza decisiva, nei nostri anni, di un rapporto positivo e fecondo fra ebraismo e cristianesimo.

Spunti interessanti sono stati forniti da alcuni commentatori: il priore di Bose, Enzo Bianchi, uno dei pionieri dell’ecumenismo e del dialogo con l’ebraismo, ha ribadito sulla «Stampa» l’origine scritturale delle preghiere del venerdì santo e ha escluso che ad esse sia sotteso un intento o un’aspirazione conversionistica. Sul «Foglio» Giorgio Israel ha ipotizzato un’alleanza in funzione anti-ratzingeriana fra alcuni settori dell’ebraismo italiano e frange del cattolicesimo progressista: non a caso l’articolo del rabbino veneziano Elia Enrico Richetti (quello che ha dato definitiva visibilità alla vertenza) è stato ospitato sul mensile «Popoli», la rivista missionaria dei gesuiti italiani. Il padre David M. Jaeger ci ha ricordato che l’ebraismo non ha una «gerarchia», e «i rabbini non sono né sacerdoti né, molto meno, “vescovi”, ma sono piuttosto periti e docenti della Torah e delle leggi religiose, autorevolissimi certo all'interno di questa sfera, ma quando si esprimono su altre materie, non manifestano che i loro giudizi personali, da rispettare certamente sempre, ma non da ritenere proclami che impegnano l'intera collettività, e meno ancora collettività diverse da quelle rispettivamente da loro servite». Anche Sandro Magister ha ipotizzato che alcuni aspetti della vicenda rinviino a problemi interni all’ebraismo italiano e a una sorta di “arroccamento” che caratterizzerebbe alcuni suoi esponenti, come il rabbino capo di Roma, Di Segni, che «ha inaugurato una dirigenza del rabbinato in Italia meno laica e più identitaria, più osservante di riti e precetti, e di conseguenza più conflittuale col papato sul versante religioso».
Credo anch’io – lo dico subito – che le scelte recenti dei rabbini italiani rispondano a una logica difensiva. Ma di che e rispetto a chi? Per farmi capire, ricorro nella maniera più rozza e schematica ad alcuni strumenti della sociologia delle religioni. Si può dire che anche quello religioso sia una sorta di “mercato” in cui – in determinati contesti – si incontra una domanda e un’offerta. Qual è l’offerta dell’ebraismo italiano in questo momento? O meglio, come si presenta, da un punto di vista religioso, di fronte a quella parte di opinione pubblica che è sensibile a queste problematiche? Sono consapevole – sia detto una volta per tutte – dell’immensa ricchezza della tradizione religiosa e della cultura che circola nel nostro ebraismo: mi chiedo solo quale percezione esso offra di sé all’italiano medio, che cerchi di orientarsi nell’«offerta religiosa» dei nostri giorni. Credo che si caratterizzi per due punti: la memoria continua e dolente della Shoah e il sostegno “politico” e valoriale allo Stato d’Israele. Si tratta di due problemi fondamentali e tale impegno gli fa onore.

Ma sono emerse nel mondo d’oggi molte altre sfide a cui l’uomo contemporaneo, soprattutto se religiosamente orientato, cerca di dare una risposta: quelle della bioetica, della sessualità in tutte le sue forme, dell’aborto, della famiglia “naturale” e di quelle alternative, del problema dei confini della vita, al suo inizio come alla sua conclusione. Emergono poi vaste problematiche sociali, da quelle attinenti alla distribuzione delle ricchezze, nella nostra società e a livello internazionale, a quelle connesse ai rapporti fra le civiltà, le culture, le religioni. Infine nell’ultimo ventennio, con la crisi della cultura rivoluzionaria e più in generale dell’approccio ottimistico alla modernità, è riemerso il problema della “tradizione”, che coinvolge non solo molte frange di “battezzati”, ma anche – manifestamente – il mondo ebraico: lo testimonia la parabola biografica di alcuni dei più eminenti intellettuali ebrei italiani, il cui ebraismo era – quarant’anni fa – solo ambientale e familiare e che oggi è molto più consapevole e combattivo.
Mi pare che su questi problemi all’italiano medio (di cui parlavo prima) non arrivino, da parte del mondo ebraico, delle risposte forti e, quando arrivano, siano tutt’altro che univoche; e che non pochi dei suoi rappresentanti avvertano su tali temi la “concorrenza” del pensiero ratzingeriano. Esso chiede loro – come il Papa ha scritto di recente - di confrontarsi col cattolicesimo non tanto su (mi si passi l’espressione) astratti problemi teologici, ma sulle «conseguenze culturali» delle rispettive fedi religiose e indica, come primo terreno di confronto, la «crisi contemporanea dell’etica». Su tale terreno – sulla base del comune retroterra biblico - il confronto potrebbe essere molto ravvicinato e positivo e non impossibile la formulazione di risposte ispirate agli stessi valori. Lo conferma l’evidente feeling che con le posizioni del Papa dimostrano alcuni di quegli intellettuali ebrei a cui prima accennavo.

Ho l’impressione che non pochi settori dell’ebraismo italiano guardino con diffidenza a questo confronto e temano che esso conduca a una qualche omologazione, non delle due fedi religiose, ma dei corollari pratici che – in merito alle questioni oggi più avvertite come urgenti – ne potrebbero discendere. Da qui la tentazione, nella difesa dei propri spazi, dell’arroccamento e della ripresa di una logica di differenziazione polemica, le cui risorse sono immancabilmente offerte da determinati elementi del passato (i “silenzi” di Pio XII, l’antico conversionismo cattolico, la preghiera del venerdì santo).

Di Roberto Pertici, L'Occidentale.
proRatzinger
00martedì 3 febbraio 2009 17:29
E' allarmante e sconcertante come la voce degli episcopati d'Oltralpe si sia levata contro la decisione del Sommo Pontefice e anche contro lui stesso. Inoltre, come se non bastasse, anche le dichiarazioni del cancelliere tedesco Angela Merkel sono un atto d'accusa al Papa. E' vergognoso! Come si permette la cara Angela, primo ministro di un Paese estero, quale la Germania, di intromettersi e di ingerire in una questione che non la riguarda minimamente e nelle quali lei non deve neanche entrare, in quanto non ha le competenze adatte, quindi non è una questione al suo livello? Questo cancelliere ci stupisce, crede che Ratzinger, in quanto tedesco, sia suo cittadino, sul quale può esprimere giudizi e ingerirsi nei suoi affari: ebbene, che la Merkel pensi alla Germania e non si infili in questioni più grandi di lei e soprattutto la smetta di fare la cara perbenista, solo perchè dal popolo tedesco è venuto lo sterminio degli ebrei, e il suo popolo ha i sensi di colpa! Chissenefrega! Una persona così squallida, per me, può andare a farsi friggere: l'atteggiamento del Papa nei confronti degli ebrei è quello che ha sempre manifestato nelle Sinagoghe dei Paesi nei quali è andato, ad Auschwitz e company. Punto. Se gli ebrei non capiscono, possono scaricare le loro manie e le loro frustazioni su qualcosa di costruttivo e non su stupide polemiche infondate, alimentando il loro melenso vittimismo. Detto questo, passerei alla Chiesa tedesca e al suo ex-capo, Sua Eminenza Rev.ma Karl Lehmann che ha criticato la posizione del Papa: già, lui, il cardinale che rischiò la porpora perchè persona adusa alle carnevalate liturgiche e non, uomo che chiaramente, con un recupero della sana tradizione della Chiesa, vede il demonio! E bravo Lehmann, tu sei un pagliaccio come tutti gli altri, un saltimbanco visto che ti sei persino fatto concedere l'onorificenza dell'Ordine contro il bestial rigore! La Chiesa è veramente ridotta male con porporati del genere, caro Lehmann! Ubbidisci invece di andare a carnevalare in giro per la Germania, magari con il naso rosso e la faccia incipriata di bianco come la tua amica Angela Merkel, a sputare infamie contro la Chiesa!!!!
proRatzinger
00martedì 3 febbraio 2009 17:30
Da "Una Vox"
IL CAPO DELLA CONFERENZA EPISCOPALE TEDESCA
DA' IL BUON ESEMPIO NEL CELEBRARE IL CARNEVALE
DIVENTANDO ADDIRITTURA UNO DEI CAPI





Siamo ad Aachen (Aquisgrana), il 22 gennaio di quest'anno.
Nel corso di una manifestazione carnevalesca si nota la corpulenta presenza del capo dei vescovi tedeschi, Sua Eminenza Reverendissima il Signor Cardinale Karl Lehmann, Arcivescovo di Mainz (Magonza).
Egli sale sul palco di carnevale e tiene un sermone rituale dal tenore e dal contenuto carnevalesco.
È paludato come un povero pecoraio, ma si percepisce bene la grinta del capo popolo.
I presenti ne apprezzano il tono e il contenuto e gli conferiscono il titolo di Gran Cavaliere dell' "Ordine contro il bestial rigore" (Order Wider den tierischen Ernst).

Povero cardinale, con le sue sparate supermoderniste ha rischiato perfino il cardinalato, che gli è stato conferito all'ultimo momento perché il Papa non nega un cappello a nessuno.
Meno male che si è rifatto adesso col cavalierato di carnevale, che mostra fiero e impettito.

Intendiamoci, lo stesso titolo è stato conferito a tanti altri uomini illustri, politici e studiosi, perfino a qualche italiano, e mancava proprio un uomo di Chiesa, e il cardinale Lehhmann non ha perso l'occasione di fare il primo della classe.

D'altronde, anche in Germania, tanti uomini di Chiesa sono ormai abituati alle più seriose pantomime, dove, come in occasione del carnevale, ci si diverte a sfoggiare i più diversi colori per sottolineare la diversità ecumenica che è una ricchezza per la "chiesa universale".
Il cardinale, temprato da tanti esercizi ecumenici, ha pensato bene che andando al carnevale avrebbe riscosso altrettanto successo.
E così è stato.

A volte ci chiediamo se si tratta magari di un qualche scherzo da prete, ma poi ci prende sempre più lo sconforto nell'essere costretti a riconoscere che al peggio non c'è mai fine.
Ci sforziamo di avere fiducia nell'avvenire, di sperare nella buona volontà di tanti bravi sacerdoti, monsignori e vescovi cattolici che si astengono dalle buffonate, ma dopo quarant'anni, assistendo ancora a sceneggiate come queste non possiamo impedirci di pensare che forse abbiamo sbagliato Chiesa.

Il Signore perdoni i nostri cattivi pensieri, perché sa che non abbiamo la minima intenzione di arrecare offesa alla Santa Madre Chiesa, e ci conceda la forza di tenere ancora il nostro posto perché un giorno si possa giungere a cacciare i novelli mercanti dal Tempio



proRatzinger
00venerdì 6 febbraio 2009 09:55
NEGAZIONISMO/ La Merkel vuole chiarimenti dal Papa? Li ha già sotto mano…
José Luis Restan venerdì 6 febbraio 2009


Persino una persona sensata come Angela Merkel è stata trascinata nell’uragano e ha ceduto alla pressione dell’ambiente. La cancelliera tedesca ha chiesto al Papa chiarimenti sulla posizione del Vaticano sull’Olocausto. Dovremmo forse raccomandarle qualche otorino di Berlino e un ricostituente per la memoria, dato che Benedetto XVI ha ripetuto fino alla noia la condanna senza appello dell’orrore della Shoah, l’ultima volta appena sette giorni dopo lo scoppio del caso Williamson. Lo riproponiamo alla Merkel: «Mentre rinnovo con affetto l’espressione della mia piena e indiscutibile solidarietà con i nostri Fratelli destinatari della Prima Alleanza, auspico che […] la Shoah sia per tutti monito contro l’oblio, contro la negazione o il riduzionismo, perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti».


Tuttavia è vero che la pesante operazione di disinformazione in corso richiede uno sforzo esplicativo. Il vescovo Williamson, uno dei quattro ordinati da Mons. Lefebvre nel 1988, aveva fatto nel novembre dello scorso anno una dichiarazione alla televisione svedese in cui minimizzava le dimensioni dell’Olocausto. Una dichiarazione deplorevole da un punto di vista morale e storico, che tuttavia allora non produsse nessuno scandalo. Ma quando lo scorso 24 gennaio è diventato pubblico il gesto di misericordia del Papa che ha tolto la scomunica che pesava sui quattro Vescovi della Fraternità San Pio X, qualcuno ha messo nel circuito televisivo l’infelice intervista di Williamson e la miccia è stata accesa a velocità supersonica. Secondo alcuni, il Papa avrebbe riabilitato un “negazionista”, così che il Vaticano avrebbe messo in dubbio la gravità del genocidio degli ebrei durante il nazismo.



In primo luogo va detto che non c’è stata alcuna riabilitazione. Il Papa, vedendo il dolore espresso dai Vescovi tradizionalisti e tenendo conto dei passi fatti nel dialogo con loro, ha deciso di togliere la pena canonica della scomunica per far sì che il cammino verso l’unità avanzi. È un gesto di paterna misericordia legato al ministero dell’unità che è sostanziale al ministero di Pietro. Per questo i Vescovi restano sospesi, non sono in piena comunione con la Chiesa e solamente Dio sa quando torneranno ad esserlo.



Tra le altre cose, essi devono esprimere la loro piena accettazione del Magistero, che include le disposizione del Concilio Vaticano II, come ha sottolineato Benedetto XVI durante l’Udienza Generale. Dall’altra parte, la Fraternità San Pio X, per bocca del suo superiore, Bernard Fellay, ha respinto le affermazioni di Williamson e ha chiarito che cristiani ed ebrei condividono il patrimonio dell’Antico Testamento e che qualsiasi forma di antisemitismo è assolutamente condannabile. Infine, lo stesso Williamson ha inviato una lettera in cui chiede perdono per le sue errate opinioni.



Non vogliamo qui entrare nel merito dei possibili errori nella gestione della crisi mediatica. È chiaro che il Vaticano non è il Pentagono, dove anche si sbaglia. Ma si potrebbe chiedere al personale della Curia e ad altri importanti prelati europei un po’ di freno verbale per non darsi vicendevolmente mazzate sulla testa e, cosa più importante, di non lasciare il Papa da solo ad affrontare le intemperie. Per far questo abbiamo già la triste serie dei Küng e dei Boff, sempre pronti a distruggere la Chiesa che non si piega alle loro pretese.



Risulta di una malizia perversa, o di un’ignoranza da cui conviene star alla larga, proporre l’immagine di un Benedetto XVI tollerante con l’antisemitismo o con il cossiddetto “negazionismo”. Quando Papa Ratzinger è uscito per la prima volta da Roma per la Giornata Mondiale della Gioventù, volle esser presente alla Sinagoga di Colonia per rendere omaggio alle vittime della Shoah. Non era obbligato a farlo, data la natura del viaggio, ma voleva inviare un messaggio su uno dei fondamenti del suo pontificato, cioè la relazione intrinseca che per un misterioso disegno di Dio lega ebrei e cristiani fino alla fine dei tempi: «Tenendo conto della radice ebraica del cristianesimo, [...] chi incontra Gesù Cristo incontra l’ebraismo».

Dopo come Papa volle visitare il campo di Auschwitz, che già aveva visitato in numerose occasioni fin dalla sua gioventù. Lì pronunciò il discorso più impressionante che un cristiano abbia mai fatto sullo sterminio degli ebrei durante il nazismo: «In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio – un silenzio che è un interiore grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo? È in questo atteggiamento di silenzio che ci inchiniamo profondamente nel nostro intimo davanti alla innumerevole schiera di coloro che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte; questo silenzio, tuttavia, diventa poi domanda ad alta voce di perdono e di riconciliazione, un grido al Dio vivente di non permettere mai più una simile cosa».



E tutto questo dovrebbe saperlo già la Signora Merkel. Ma benché lo sappia, ha ceduto alla pressione e ha voluto fare quella che gli italiani chiamano “una bella figura”. Vuole chiarimenti? Beh, li ha già in mano
proRatzinger
00venerdì 6 febbraio 2009 09:58
Quando Papa Wojtyla esortò il cardinal Ratzinger a ricucire con Lefebvre in nome del Concilio
di Gianteo Bordero
bordero@ragionpolitica.it

mercoledì 04 febbraio 2009


La questione lefebvriana si intreccia oggi, come sempre si è intrecciata, con la questione della corretta interpretazione del Vaticano II. Lo dimostrano, da ultimo, i fatti accaduti di recente, nei giorni successivi alla remissione della scomunica a carico dei quattro vescovi ordinati da monsignor Lefebvre nel 1988: chi critica la decisione di Benedetto XVI la fa soprattutto in nome di una «fedeltà al Concilio» che sarebbe stata tradita dal pontefice con la sua scelta. In sostanza, il cammino intrapreso dal Papa per giungere ad una piena ricucitura dello scisma lefebvriano sarebbe, a detta di molti, un passo indietro rispetto al percorso compiuto dalla Chiesa e dai predecessori di Ratzinger sul soglio di Pietro, che non hanno esitato a prendere provvedimenti i più gravi per condannare l'arcivescovo francese fondatore della Fraternità San Pio X.

Questa è di certo una lettura arbitraria della storia, specchio di un'altrettanto arbitraria lettura del Vaticano II e di ciò che esso ha rappresentato nel cammino della Chiesa. In particolare, ci si dimentica di sottolineare il filo della continuità che lega, su questo punto, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Nonostante le apparenze e le facili approssimazioni, Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger sono più vicini di quello che sembra in merito alla questione lefebvriana. Certo: il primo è stato colui che ha scomunicato Lefebvre (anche se, formalmente, il provvedimento a carico del monsignore è scattato in modo «automatico» al momento della consacrazione dei vescovi senza l'autorizzazione papale), mentre il secondo è colui che ha revocato tale scomunica e che si avvia a sanare la ferita dello scisma. Eppure, ci si dimentica di ricordare non soltanto che l'attuale pontefice è stato per più di vent'anni prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede per volontà del suo predecessore (il quale, anche negli ultimi anni di regno, volle mantenere il cardinale tedesco nel suo incarico nonostante i sopraggiunti limiti d'età per la «pensione» episcopale), ma anche che fu per impulso di Giovanni Paolo II che Ratzinger provò in tutti i modi, e fino all'ultimo, a evitare lo scisma.

A testimonianza di questa sintonia tra il pontefice polacco e l'allora prefetto dell'ex Sant'Uffizio vi è, tra le altre cose, una lettera inviata dal primo al secondo l'8 aprile del 1988, cioè proprio nei mesi precedenti la rottura definitiva tra Roma ed Ecône. In quel momento, gli sforzi del Vaticano per scongiurare il peggio erano molto intensi. La trattativa fu affidata in prima persona al cardinal Ratzinger. Essa porterà, il 5 maggio di quell'anno, alla sottoscrizione di un protocollo d'accordo siglato dallo stesso porporato tedesco e dall'arcivescovo francese: quest'ultimo si impegnava a garantire fedeltà al Papa, accoglieva la dottrina conciliare sulla Chiesa e sul magistero pontificio, riconosceva la validità del Messale riformato da Paolo VI; in cambio, sarebbe stata rimossa la sospensione a divinis del monsignore e la Fraternità San Pio X sarebbe divenuta una Società di vita apostolica, retta da un vescovo nominato dal Papa su indicazione di Lefebvre. L'accordo venne ripudiato il giorno successivo dallo stesso Lefebvre, il quale sostenne di esser stato ingannato. Quel ripudio fu l'inizio della fine.

Ma la citata lettera di Giovanni Paolo II al cardinal Ratzinger rimane molto significativa, perché essa, oltre a rinnovare l'invito al prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede a proseguire negli sforzi per ricucire con il monsignore francese, affinché «si compiano anche in questo caso le parole dette dal Signore nella preghiera sacerdotale per l'unità di tutti i suoi discepoli e seguaci», contiene, in nuce, l'interpretazione del Vaticano II che è stata poi esplicitata da Benedetto XVI nel suo ormai celebre discorso alla Curia romana del dicembre 2005. Dopo aver sottolineato il carattere di rinnovamento nella continuità operato dal Concilio, Giovanni Paolo II scrive: «Si sono fatte vive delle tendenze che sulla via della realizzazione del Concilio creano una certa difficoltà. Una di queste tendenze è caratterizzata dal desiderio di cambiamenti che non sempre sono in sintonia con l'insegnamento e con lo spirito del Vaticano II, anche se cercano di fare riferimento al Concilio. Questi cambiamenti vorrebbero esprimere un progresso, e perciò questa tendenza è designata con il nome di "progressismo". Il progresso, in questo caso, è una aspirazione verso il futuro, che rompe con il passato, non tenendo conto della funzione della Tradizione che è fondamentale alla missione della Chiesa, perché essa possa perdurare nella Verità ad essa trasmessa da Cristo Signore e dagli Apostoli, e custodita con diligenza dal Magistero». D'altro lato, vi è pure la tendenza opposta, il «conservatorismo», che «vede il giusto soltanto in ciò che è "antico" ritenendolo sinonimo della Tradizione».

Tutte queste tendenze, concludeva Papa Wojtyla, non colgono il punto focale della questione. Perché «non è l'"antico" in quanto tale, né il "nuovo" per se stesso che corrispondono al concetto giusto della Tradizione nella vita della Chiesa. Tale concetto infatti significa la fedele permanenza della Chiesa nella verità ricevuta da Dio, attraverso le mutevoli vicende della storia. La Chiesa, come quel padrone di casa del Vangelo, estrae con sagacia "dal suo tesoro cose nuove e cose antiche" rimanendo assolutamente obbediente allo Spirito di verità che Cristo ha dato alla Chiesa come Guida divina». Espressioni, queste, identiche nella sostanza a quelle pronunciate da Benedetto XVI alla Curia romana, con la distinzione tra la corretta ermeneutica del Vaticano II (il Concilio come «riforma») e quella non corrispondente a verità (il Concilio come «discontinuità e rottura»).

Tutto questo per dire che sbagliano coloro che vedono nelle recenti decisioni di Papa Ratzinger una rivoluzione rispetto all'operato dei suoi predecessori, uno sterile ritorno al passato mosso dalla volontà di cancellare i frutti del Vaticano II: in realtà, come emerge dalla lettera qui riportata, egli si muove - seppur con accento e stile diversi - su una linea che tutti i Papi del post-Concilio, a partire dallo stesso Paolo VI, hanno cercato di promuovere nel momento in cui si sono resi conto che la mitizzazione, la semplificazione ideologica, la de-contestualizzazione del Vaticano II non avrebbero portato nulla di buono per la Chiesa e per i cattolici. Se lo scisma lefebvriano, con tutte le difficoltà che ancora ieri sono emerse, sarà sanato, sarà questa linea portata avanti dal papato a vincere, non un passatismo che appare tale soltanto agli occhi di chi, in buona o cattiva fede, aveva interpretato (e tuttora interpreta) il Vaticano II come una grande sbianchettatura di duemila anni di storia.


proRatzinger
00venerdì 6 febbraio 2009 11:56
Tutti vogliono chiarimenti: tra Merkel, Lehmann, rabbini vari. Ebbene, questi sordi ignoranti non devono che ricercare nel Magistero del Papa le prove del suo parere e di quello della Chiesa Cattolica sull'Olocausto. Il complotto anti-Ratzinger avvenuto in questi giorni da parte dei progressisti, di alcuni tra gli esponenti più in vista del mondo ebraico mondiale, tra cui i rabbini di Germania, di capi di stato cialtroni e politici alla stessa stegua non potrà cambiare il corso degli avvenimenti, le parole pronunicate dal Papa su questo avvenimento. Iniziando dal discorso del 28 Maggio 2006, quello del Papa Benedetto XVI ad Aushwitz-Birkenau. Verba volant, scripta manent. Id est!
proRatzinger
00venerdì 6 febbraio 2009 11:58
VISITA AL CAMPO DI AUSCHWITZ-BIRKENAU, 28 MAGGIO 2006
Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l'uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile – ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania. In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio – un silenzio che è un interiore grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo? È in questo atteggiamento di silenzio che ci inchiniamo profondamente nel nostro intimo davanti alla innumerevole schiera di coloro che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte; questo silenzio, tuttavia, diventa poi domanda ad alta voce di perdono e di riconciliazione, un grido al Dio vivente di non permettere mai più una simile cosa.

Ventisette anni fa, il 7 giugno 1979, era qui Papa Giovanni Paolo II; egli disse allora: "Vengo qui oggi come pellegrino. Si sa che molte volte mi sono trovato qui… Quante volte! E molte volte sono sceso nella cella della morte di Massimiliano Kolbe e mi sono fermato davanti al muro della morte e sono passato tra le macerie dei forni crematori di Birkenau. Non potevo non venire qui come Papa". Papa Giovanni Paolo II stava qui come figlio di quel popolo che, accanto al popolo ebraico, dovette soffrire di più in questo luogo e, in genere, nel corso della guerra: "Sono sei milioni di Polacchi, che hanno perso la vita durante la seconda guerra mondiale: la quinta parte della nazione”, ricordò allora il Papa. Qui egli elevò poi il solenne monito al rispetto dei diritti dell'uomo e delle nazioni, che prima di lui avevano elevato davanti al mondo i suoi Predecessori Giovanni XXIII e Paolo VI, e aggiunse: “Pronuncia queste parole […] il figlio della nazione che nella sua storia remota e più recente ha subito dagli altri un molteplice travaglio. E non lo dice per accusare, ma per ricordare. Parla a nome di tutte le nazioni, i cui diritti vengono violati e dimenticati…”.

Papa Giovanni Paolo II era qui come figlio del popolo polacco. Io sono oggi qui come figlio del popolo tedesco, e proprio per questo devo e posso dire come lui: Non potevo non venire qui. Dovevo venire. Era ed è un dovere di fronte alla verità e al diritto di quanti hanno sofferto, un dovere davanti a Dio, di essere qui come successore di Giovanni Paolo II e come figlio del popolo tedesco – figlio di quel popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di ricupero dell'onore della nazione e della sua rilevanza, con previsioni di benessere e anche con la forza del terrore e dell'intimidazione, cosicché il nostro popolo poté essere usato ed abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio. Sì, non potevo non venire qui. Il 7 giugno 1979 ero qui come Arcivescovo di Monaco-Frisinga tra i tanti Vescovi che accompagnavano il Papa, che lo ascoltavano e pregavano con lui. Nel 1980 sono poi tornato ancora una volta in questo luogo di orrore con una delegazione di Vescovi tedeschi, sconvolto a causa del male e grato per il fatto che sopra queste tenebre era sorta la stella della riconciliazione. È ancora questo lo scopo per cui mi trovo oggi qui: per implorare la grazia della riconciliazione – da Dio innanzitutto che, solo, può aprire e purificare i nostri cuori; dagli uomini poi che qui hanno sofferto, e infine la grazia della riconciliazione per tutti coloro che, in quest'ora della nostra storia, soffrono in modo nuovo sotto il potere dell'odio e sotto la violenza fomentata dall'odio.

Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda: Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male? Ci vengono in mente le parole del Salmo 44, il lamento dell'Israele sofferente: “…Tu ci hai abbattuti in un luogo di sciacalli e ci hai avvolti di ombre tenebrose… Per te siamo messi a morte, stimati come pecore da macello. Svégliati, perché dormi, Signore? Déstati, non ci respingere per sempre! Perché nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione? Poiché siamo prostrati nella polvere, il nostro corpo è steso a terra. Sorgi, vieni in nostro aiuto; salvaci per la tua misericordia!” (Sal 44,20.23-27). Questo grido d'angoscia che l'Israele sofferente eleva a Dio in periodi di estrema angustia, è al contempo il grido d'aiuto di tutti coloro che nel corso della storia – ieri, oggi e domani – soffrono per amor di Dio, per amor della verità e del bene; e ce ne sono molti, anche oggi.

Noi non possiamo scrutare il segreto di Dio – vediamo soltanto frammenti e ci sbagliamo se vogliamo farci giudici di Dio e della storia. Non difenderemmo, in tal caso, l'uomo, ma contribuiremmo solo alla sua distruzione. No – in definitiva, dobbiamo rimanere con l'umile ma insistente grido verso Dio: Svégliati! Non dimenticare la tua creatura, l'uomo! E il nostro grido verso Dio deve al contempo essere un grido che penetra il nostro stesso cuore, affinché si svegli in noi la nascosta presenza di Dio – affinché quel suo potere che Egli ha depositato nei nostri cuori non venga coperto e soffocato in noi dal fango dell'egoismo, della paura degli uomini, dell'indifferenza e dell'opportunismo. Emettiamo questo grido davanti a Dio, rivolgiamolo allo stesso nostro cuore, proprio in questa nostra ora presente, nella quale incombono nuove sventure, nella quale sembrano emergere nuovamente dai cuori degli uomini tutte le forze oscure: da una parte, l'abuso del nome di Dio per la giustificazione di una violenza cieca contro persone innocenti; dall'altra, il cinismo che non conosce Dio e che schernisce la fede in Lui. Noi gridiamo verso Dio, affinché spinga gli uomini a ravvedersi, così che riconoscano che la violenza non crea la pace, ma solo suscita altra violenza – una spirale di distruzioni, in cui tutti in fin dei conti possono essere soltanto perdenti. Il Dio, nel quale noi crediamo, è un Dio della ragione – di una ragione, però, che certamente non è una neutrale matematica dell'universo, ma che è una cosa sola con l'amore, col bene. Noi preghiamo Dio e gridiamo verso gli uomini, affinché questa ragione, la ragione dell'amore e del riconoscimento della forza della riconciliazione e della pace prevalga sulle minacce circostanti dell'irrazionalità o di una ragione falsa, staccata da Dio.

Il luogo in cui ci troviamo è un luogo della memoria, è il luogo della Shoa. Il passato non è mai soltanto passato. Esso riguarda noi e ci indica le vie da non prendere e quelle da prendere. Come Giovanni Paolo II ho percorso il cammino lungo le lapidi che, nelle varie lingue, ricordano le vittime di questo luogo: sono lapidi in bielorusso, ceco, tedesco, francese, greco, ebraico, croato, italiano, yiddish, ungherese, neerlandese, norvegese, polacco, russo, rom, rumeno, slovacco, serbo, ucraino, giudeo-ispanico, inglese. Tutte queste lapidi commemorative parlano di dolore umano, ci lasciano intuire il cinismo di quel potere che trattava gli uomini come materiale non riconoscendoli come persone, nelle quali rifulge l'immagine di Dio. Alcune lapidi invitano ad una commemorazione particolare. C'è quella in lingua ebraica. I potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità; eliminarlo dall'elenco dei popoli della terra. Allora le parole del Salmo: "Siamo messi a morte, stimati come pecore da macello" si verificarono in modo terribile. In fondo, quei criminali violenti, con l'annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell'umanità che restano validi in eterno. Se questo popolo, semplicemente con la sua esistenza, costituisce una testimonianza di quel Dio che ha parlato all'uomo e lo prende in carico, allora quel Dio doveva finalmente essere morto e il dominio appartenere soltanto all’uomo – a loro stessi che si ritenevano i forti che avevano saputo impadronirsi del mondo. Con la distruzione di Israele, con la Shoa, volevano, in fin dei conti, strappare anche la radice, su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell'uomo, del forte. C'è poi la lapide in lingua polacca: In una prima fase e innanzitutto si voleva eliminare l'élite culturale e cancellare così il popolo come soggetto storico autonomo per abbassarlo, nella misura in cui continuava ad esistere, a un popolo di schiavi. Un'altra lapide, che invita particolarmente a riflettere, è quella scritta nella lingua dei Sinti e dei Rom. Anche qui si voleva far scomparire un intero popolo che vive migrando in mezzo agli altri popoli. Esso veniva annoverato tra gli elementi inutili della storia universale, in una ideologia nella quale doveva contare ormai solo l'utile misurabile; tutto il resto, secondo i loro concetti, veniva classificato come lebensunwertes Leben – una vita indegna di essere vissuta. Poi c'è la lapide in russo che evoca l'immenso numero delle vite sacrificate tra i soldati russi nello scontro con il regime del terrore nazionalsocialista; al contempo, però, ci fa riflettere sul tragico duplice significato della loro missione: hanno liberato i popoli da una dittatura, ma sottomettendo anche gli stessi popoli ad una nuova dittatura, quella di Stalin e dell'ideologia comunista. Anche tutte le altre lapidi nelle molte lingue dell'Europa ci parlano della sofferenza di uomini dell'intero continente; toccherebbero profondamente il nostro cuore, se non facessimo soltanto memoria delle vittime in modo globale, ma se invece vedessimo i volti delle singole persone che sono finite qui nel buio del terrore. Ho sentito come intimo dovere fermarmi in modo particolare anche davanti alla lapide in lingua tedesca. Da lì emerge davanti a noi il volto di Edith Stein, Theresia Benedicta a Cruce: ebrea e tedesca scomparsa, insieme con la sorella, nell'orrore della notte del campo di concentramento tedesco-nazista; come cristiana ed ebrea, ella accettò di morire insieme con il suo popolo e per esso. I tedeschi, che allora vennero portati ad Auschwitz-Birkenau e qui sono morti, erano visti come Abschaum der Nation – come il rifiuto della nazione. Ora però noi li riconosciamo con gratitudine come i testimoni della verità e del bene, che anche nel nostro popolo non era tramontato. Ringraziamo queste persone, perché non si sono sottomesse al potere del male e ora ci stanno davanti come luci in una notte buia. Con profondo rispetto e gratitudine ci inchiniamo davanti a tutti coloro che, come i tre giovani di fronte alla minaccia della fornace babilonese, hanno saputo rispondere: "Solo il nostro Dio può salvarci. Ma anche se non ci liberasse, sappi, o re, che noi non serviremo mai i tuoi dèi e non adoreremo la statua d'oro che tu hai eretto" (cfr Dan 3,17s.).

Sì, dietro queste lapidi si cela il destino di innumerevoli esseri umani. Essi scuotono la nostra memoria, scuotono il nostro cuore. Non vogliono provocare in noi l'odio: ci dimostrano anzi quanto sia terribile l'opera dell'odio. Vogliono portare la ragione a riconoscere il male come male e a rifiutarlo; vogliono suscitare in noi il coraggio del bene, della resistenza contro il male. Vogliono portarci a quei sentimenti che si esprimono nelle parole che Sofocle mette sulle labbra di Antigone di fronte all'orrore che la circonda: "Sono qui non per odiare insieme, ma per insieme amare".

Grazie a Dio, con la purificazione della memoria, alla quale ci spinge questo luogo di orrore, crescono intorno ad esso molteplici iniziative che vogliono porre un limite al male e dar forza al bene. Poco fa ho potuto benedire il Centro per il Dialogo e la Preghiera. Nelle immediate vicinanze si svolge la vita nascosta delle suore carmelitane, che si sanno particolarmente unite al mistero della croce di Cristo e ricordano a noi la fede dei cristiani, che afferma che Dio stesso e sceso nell'inferno della sofferenza e soffre insieme con noi. A Oświęcim esiste il Centro di san Massimiliano e il Centro Internazionale di Formazione su Auschwitz e l'Olocausto. C'è poi la Casa Internazionale per gli Incontri della Gioventù. Presso una delle vecchie Case di Preghiera esiste il Centro Ebraico. Infine si sta costituendo l'Accademia per i Diritti dell'Uomo. Così possiamo sperare che dal luogo dell'orrore spunti e cresca una riflessione costruttiva e che il ricordare aiuti a resistere al male e a far trionfare l’amore.

L'umanità ha attraversato a Auschwitz-Birkenau una "valle oscura". Perciò vorrei, proprio in questo luogo, concludere con una preghiera di fiducia – con un Salmo d'Israele che, insieme, è una preghiera della cristianità: "Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome. Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza … Abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni" (Sal 23, 1-4. 6).

proRatzinger
00venerdì 6 febbraio 2009 12:00
PIAZZA S. PIETRO, UDIENZA GENERALE DEL 31 MAGGIO 2006
(...) Rimanete saldi nella fede! E’ questa la consegna che ho lasciato ai figli dell’amata Polonia, incoraggiandoli a perseverare nella fedeltà a Cristo e alla Chiesa, perché non manchi all’Europa e al mondo l’apporto della loro testimonianza evangelica. Tutti i cristiani devono sentirsi impegnati a rendere questa testimonianza, per evitare che l’umanità del terzo millennio possa conoscere ancora orrori simili a quelli tragicamente evocati dal campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.

Proprio in quel luogo tristemente noto in tutto il mondo ho voluto sostare prima di far ritorno a Roma. Nel campo di Auschwitz-Birkenau, come in altri simili campi, Hitler fece sterminare oltre sei milioni di ebrei. Ad Auschwitz-Birkenau morirono anche circa 150.000 polacchi e decine di migliaia di uomini e donne di altre nazionalità. Di fronte all’orrore di Auschwitz non c’è altra risposta che la Croce di Cristo: l’Amore sceso fino in fondo all’abisso del male, per salvare l’uomo alla radice, dove la sua libertà può ribellarsi a Dio. Non dimentichi l’odierna umanità Auschwitz e le altre “fabbriche di morte” nelle quali il regime nazista ha tentato di eliminare Dio per prendere il suo posto! Non ceda alla tentazione dell’odio razziale, che è all’origine delle peggiori forme di antisemitismo! Tornino gli uomini a riconoscere che Dio è Padre di tutti e tutti ci chiama in Cristo a costruire insieme un mondo di giustizia, di verità e di pace! Questo vogliamo chiedere al Signore per intercessione di Maria che quest’oggi, concludendo il mese di maggio, contempliamo solerte e amorevole nel visitare la sua anziana parente Elisabetta.
proRatzinger
00venerdì 6 febbraio 2009 12:03
AULA PAOLO VI, UDIENZA GENERALE DEL 28 GENNAIO 2009
(...) Nell’omelia pronunciata in occasione della solenne inaugurazione del mio Pontificato dicevo che è "esplicito" compito del Pastore "la chiamata all’unità", e commentando le parole evangeliche relative alla pesca miracolosa ho detto: "sebbene fossero così tanti i pesci, la rete non si strappò", proseguivo dopo queste parole evangeliche: "Ahimè, amato Signore, essa – la rete - ora si è strappata, vorremmo dire addolorati". E continuavo: "Ma no – non dobbiamo essere tristi! Rallegriamoci per la tua promessa che non delude e facciamo tutto il possibile per percorrere la via verso l’unità che tu hai promesso…. Non permettere, Signore, che la tua rete si strappi e aiutaci ad essere servitori dell’unità".

Proprio in adempimento di questo servizio all’unità, che qualifica in modo specifico il mio ministero di Successore di Pietro, ho deciso giorni fa di concedere la remissione della scomunica in cui erano incorsi i quattro Vescovi ordinati nel 1988 da Mons. Lefebvre senza mandato pontificio. Ho compiuto questo atto di paterna misericordia, perché ripetutamente questi Presuli mi hanno manifestato la loro viva sofferenza per la situazione in cui si erano venuti a trovare. Auspico che a questo mio gesto faccia seguito il sollecito impegno da parte loro di compiere gli ulteriori passi necessari per realizzare la piena comunione con la Chiesa, testimoniando così vera fedeltà e vero riconoscimento del magistero e dell’autorità del Papa e del Concilio Vaticano II.

La terza comunicazione:

In questi giorni nei quali ricordiamo la Shoah, mi ritornano alla memoria le immagini raccolte nelle mie ripetute visite ad Auschwitz, uno dei lager nei quali si è consumato l’eccidio efferato di milioni di ebrei, vittime innocenti di un cieco odio razziale e religioso. Mentre rinnovo con affetto l’espressione della mia piena e indiscutibile solidarietà con i nostri Fratelli destinatari della Prima Alleanza, auspico che la memoria della Shoah induca l’umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell’uomo. La Shoah sia per tutti monito contro l’oblio, contro la negazione o il riduzionismo, perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti. Nessun uomo è un’isola, ha scritto un noto poeta. La Shoah insegni sia alle vecchie sia alle nuove generazioni che solo il faticoso cammino dell’ascolto e del dialogo, dell’amore e del perdono conduce i popoli, le culture e le religioni del mondo all’auspicato traguardo della fraternità e della pace nella verità. Mai più la violenza umili la dignità dell’uomo!
proRatzinger
00domenica 15 febbraio 2009 11:03
Leggete questo bellissimo articolo verace: http://www.imgpress.it/notizia.asp?idnotizia=39927&idsezione=4
proRatzinger
00domenica 15 febbraio 2009 11:11
Del prof. Alberto Giannino, presidente dell'Associazione Docenti Cattolici
LA SUBDOLA CONTESTAZIONE A BENEDETTO XVI FATTA CON BUGIE IMPIETOSE

Benedetto XVI è sotto accusa da laicisti, anticlericali, cattolici di sinistra e protestanti dopo quattro anni di pontificato lungimirante. Il Financial Times, L’Espresso e La Stampa sono irriverenti nei suoi confronti: parlano di lui come se fosse l’ultimo arrivato, e non già il successore di Pietro. Lucia Annunziata che lavora in Rai e a La stampa intervista il teologo protestante svizzero Hans Kung il quale parla di “chiese vuote, di restaurazione, e di un Pontefice che vive nel suo mondo, che si è allontanato dagli uomini, e oltre a grandi processioni e pompose cerimonie, non vede più i problemi dei fedeli. Per esempio la morale sessuale, la cura pastorale delle anime, la contraccezione. La Chiesa –dice Kung - è in crisi, io spero che il Papa lo riconosca. Sarei felice di passi di riconciliazione specie verso gli ambienti dei fedeli progressisti. Ma Benedetto XVI non vede che sta alienando se stesso dalla gran parte della Chiesa cattolica e della cristianità. Non vede il mondo reale, vede solo il mondo vaticano". La Stampa scomoda poi Marco Tosatti che lo attacca sul piano personale. Benedetto XVI vivrebbe in solitudine circondato solo da pochissimi collaboratori e si dedicherebbe solo al suo libro di Gesù di Nazaret ( II.a parte) e ad una Enciclica sociale. Come dire: egli pensa solo alle sue cose private e non alla Chiesa! Barbara Spinelli, sempre su La Stampa, parla di caduta di autorità, di perdita di leadership, di interferenze della Chiesa e di incapacità di governo del Pontefice. L’espresso e il Mattino di Padova pubblicano una lettera di un prete che definisce il Pontefice “mio nonno” (sic!) e non avendo una sola critica teologica da muovergli, lo attacca sull’eleganza, sull’anello del pescatore, e sulla liturgia, come se quest’ultima non fosse il riflesso dello splendore di Dio. Un attacco durissimo da parte di un giovane parroco che non sa, per esempio, che Benedetto XVI quando era un potente cardinale romano usciva dalla sua abitazione e dava da mangiare ai gatti randagi. Non sa, questo prete, che Joseph Ratzinger nella sua carriera e nella sua vita non ha mai cercato una carica: l’hanno sempre chiamato e lui ha sempre obbedito. Come quando chiese a Giovanni Paolo II di andare in pensione e gli fu chiesto di restare al suo posto per servire la Chiesa. E non sa, infine, che il cardinale Ratzinger era avvicinabile da chiunque lo incontrasse. Il prete padovano è scandalizzato dagli abiti che indossa Benedetto XVI: forse dovrebbe andare in giro trasandato, con le scarpe bucate, e gli abiti un po’ sporchi. Questo prete si chiede come potrà fare ancora pastorale ai suoi fedeli se Benedetto XVI non cambierà? Per lui Benedetto XVI, a 81 anni, deve andare a dormire all’addiaccio e sotto i ponti. Solo cosi questo prete troverà la fiducia persa nel romano Pontefice. Ma dove ha fatto il seminario questo prete? Dove ha studiato teologia? E chi lo ha ordinato? Se i primi contestatori della Chiesa sono alcuni ministri di Dio è inevitabile che poi anche settori laicisti della pubblica opinione li seguono su questa strada.
Non poteva mancare il Financial Times giornale protestante secondo cui Benedetto XVI, «è inciampato nella peggiore crisi dei suoi quattro anni di papato...cardinali e vescovi si stanno mobilitando per la rivolta, anche se al momento l'obiettivo della loro inquietudine è un manipolo di figure che circonda il Pontefice 81enne, il quale, temono, stia diventando un timido recluso, sepolto dalle sue letture e scritture, vulnerabile alle manipolazioni». Questa, secondo il Finantial Times , «è la spiegazione indulgente del perché il Papa ha revocato la scomunica a quattro vescovi ultratradizionalisti». E ancora: “L'affaire Williamson ha ridotto il pontefice a un «rottweiler di dio maltrattato». Insomma, un «Papa timido e isolato», un'immagine ben lontana da quella del «rottweiler di Dio” che la stampa internazionale coniò a suo tempo. In realtà secondo il quotidiano britannico è sbagliata la definizione del Papa «rottweiler di dio». “La verità è che – secondo fonti del giornale- il Papa è timido al limite della reclusione, uno che potenzialmente può essere intimorito». Insomma, queste critiche sono l’anticamera per sostenere il concetto che Benedetto XVI è incapace di intendere e di volere. Che non è nel pieno possesso delle sue facoltà. Questo si evince da una lettura attenta di tutti questi articoli e interviste di questa settimana. E se Benedetto XVI è influenzabile, è un uomo pauroso, è un uomo spaventato come può svolgere il suo mandato? Se a 81 anni gli muovono queste critiche figuratevi a 85-86 anni. Benedetto non evangelizza, non annuncia il Vangelo a tutti: è chiuso nelle sue stanze, è un misantropo. Non dialoga con nessuno. Non si confronta con gli altri. Altra bugia che solo certi personaggi in cerca di meriti presso i loro editori scrivono. Perché non vanno a vedere i suoi viaggi apostolici in Italia e all’estero? Perché non leggono le sue due Encicliche impareggiabili, i suoi numerosi messaggi, le sue catechesi culturali del mercoledi, e le sue omelie di questi quattro anni? E ancora: perché non vanno a vedere le sue visite alle parrocchie romane e gli incontri con il clero, con i giovani, e con la folla? No, signori. Voi sapete benissimo che Benedetto XVI sta lavorando come operaio nella vigna del Signore. Con lui la Chiesa continua ad essere "madre e maestra" definizione di Giovanni XXIII. Ha messo ordine nei seminari, ha chiesto che i seminaristi con orientamenti sessuali discutibili non diventino sacerdoti. Ha chiesto la tolleranza zero verso i preti pedofili. Benedetto XVI inoltre vuole vedere personalmente il fascicolo personale di ogni aspirante vescovo, contrariamente a Giovanni Paolo II che avallava l’operato del cardinale Re. Benedetto XVI è un Papa attento alla Tradizione, alla Bibbia e al magistero della Chiesa. Ma laicisti e protestanti quando sentono la parola Tradizione gli viene l’orticaria. Ecco perché ha riammesso i tradizionalisti della Comunità san Pio X. La Tradizione, vorrei far rilevare a qualche teologo improvvisato, è stata ribadita nella Costituzione dogmatica Dei Verbum dal Vaticano II a cui si richiamano ogni due minuti, ma di cui non conoscono bene i contenuti. Il dialogo interreligioso prosegue con ortodossi, ebrei e musulmani. Ma il magistero di questo Papa non piace ad alcuni rabbini e ad alcuni mussulmani. Non perdonano infatti a Joseph Ratzinger la dichiarazione che scrisse quando era cardinale, la “Dominus Iesus” del 6 agosto 2000 circa l’unicità e la universalità salvifica di Gesù Cristo. E poi questo Papa che tanto insiste sui valori non negoziabili (vita, famiglia, e libertà di educazione dei figli) non va giù ai laicisti di casa nostra pronti ad insorgere e ad invocare la indebita ingerenza. Insomma questo papa dovrebbe parlare come ha detto la Bindi solo delle cose di lassù e non delle cose di quaggiù. Ma costoro dimenticano che il Papa è un successore degli Apostoli, è il Vicario di Cristo sulla terra e che deve evangelizzare. Cioè annunciare la lieta Novella a tutti e a ciascuno fino a gli estremi confini della terra. A lui della popolarità e delle critiche corrosive importa poco, è vero, ma non è un reato. Lui governa la Chiesa con il criterio della collegialità ascoltando il Collegio cardinalizio, le Conferenze episcopali, e i vari Sinodi della Chiesa. Non decide in solitudine: è falso. E' un uomite mite ma fermo come lui stesso si è definito. Va ricordata infine la promessa fatta da Gesù a Simon Pietro, ( il cui successore oggi è Benedetto XVI ndr) di costituirlo pietra fondamentale della sua Chiesa, ha riscontro nel mandato che il Cristo gli affida dopo la risurrezione: “Pasci i miei agnelli”, “Pasci le mie pecorelle” (Gv 21, 15-17). Vi è un oggettivo rapporto tra il conferimento della missione attestato dal racconto di Giovanni, e la promessa riferita da Matteo (cf. Mt 16, 18-19). Nel testo di Matteo vi era un annuncio. In quello di Giovanni vi è l’adempimento dell’annuncio. Le parole: “Pasci le mie pecorelle” manifestano l’intenzione di Gesù di assicurare il futuro della Chiesa da lui fondata, sotto la guida di un pastore universale, ossia Pietro, al quale egli ha detto che, per sua grazia, sarà “pietra” e che avrà le “chiavi del regno dei cieli”, col potere “di legare e di sciogliere”. Gesù, dopo la risurrezione, dà una forma concreta all’annuncio e alla promessa di Cesarea di Filippo, istituendo l’autorità di Pietro come ministero pastorale della Chiesa, a raggio universale. Diciamo subito che in tale missione pastorale s’integra il compito di “confermare i fratelli” nella fede che è il compito precipuo di Benedetto XVI. “Confermare i fratelli” e “pascere le pecore” costituiscono congiuntamente la missione di Pietro: si direbbe il proprium del suo ministero universale. Come afferma il Concilio Vaticano I, la costante tradizione della Chiesa ha giustamente ritenuto che il primato apostolico di Pietro “comprende pure la suprema potestà di magistero” (cf. Denz.-S. 3065). Sia il primato che la potestà di magistero sono conferiti direttamente da Gesù a Pietro come persona singolare, anche se ambedue le prerogative sono ordinate alla Chiesa, senza però derivare dalla Chiesa, ma solo da Cristo. Il primato è dato a Pietro (cf. Mt 16, 18) come - l’espressione è di Agostino - “totius Ecclesiae figuram gerenti” (Epist., 53,1.2), ossia in quanto egli personalmente rappresenta la Chiesa intera; e il compito e potere di magistero gli è conferito come fede confermata perché sia confermante per tutti i “fratelli” (cf. Lc 22, 31 s). Ma tutto è nella Chiesa e per la Chiesa, di cui Pietro è fondamento, clavigero e pastore nella sua struttura visibile, in nome e per mandato di Cristo. Gesù conferisce a Simon Pietro la missione pastorale: “Pasci i miei agnelli”; “Pasci le mie pecorelle”. È come un prolungamento della missione di Gesù, che ha detto di sé: “Io sono il buon Pastore” (Gv 10, 11). Gesù, che ha partecipato a Simone la sua qualità di “pietra”, gli comunica anche la sua missione di “pastore”. È una comunicazione che implica una comunione intima, che traspare anche dalla formulazione di Gesù: “Pasci i miei agnelli . . . le mie pecorelle”; come aveva già detto: “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16, 18). La Chiesa è proprietà di Cristo, non di Pietro. Agnelli e pecorelle appartengono a Cristo, e a nessun altro. Gli appartengono come a “buon Pastore”, che “offre la vita per le sue pecore” (Gv 10, 11). Pietro deve assumersi il ministero pastorale nei riguardi degli uomini redenti “con il sangue prezioso di Cristo” (1 Pt 1, 19). Sul rapporto tra Cristo e gli uomini, diventati sua proprietà mediante la redenzione, si fonda il carattere di servizio che contrassegna il potere annesso alla missione conferita a Pietro, ovvero Benedetto XVI: servizio a Colui che solo è “pastore e guardiano delle nostre anime” (1 Pt 2, 25), e nello stesso tempo a tutti coloro che Cristo-buon Pastore ha redento a prezzo del sacrificio della croce. È chiaro, peraltro, il contenuto di tale servizio che oggi svolge Benedetto XVI: come il pastore guida le pecore verso i luoghi in cui possono trovare cibo e sicurezza, così il pastore delle anime deve offrir loro il cibo della parola di Dio e della sua santa volontà (cf. Gv 4, 34), assicurando l’unità del gregge e difendendolo da ogni ostile incursione.
proRatzinger
00venerdì 20 febbraio 2009 18:18
Radio israeliana insulta i cristiani
La trasmissione è stata oscurata, su richiesta della Santa Sed, dopo le proteste dei cristiani che vivono in Terrasanta.


Mentre si attende il viaggio di Benedetto XVI in Terrasanta, e vengono emessi comunicati pieni di speranza sulle trattative, annose, in corso fra Israele e Vaticano per applicare la parte giuridica ed economica dell'accordo firmato nel 1994, un nuovo caso ha provocato la reazione delle comunità cristiane in Israele. La notizia è stata data dal sito della "Custodia", e vi offriamo il loro articolo,
con la reazione raccolta dall'agenzia Zenit.
"Loro (i cristiani) negano l’olocausto, quindi io negherò il cristianesimo. Bisogna che qualcuno dia loro una lezione.”. In una trasmissione satirica sul canale israeliano 10, un tale che si autodefinisce umorista ha pensato bene di volersi vendicare “del Vaticano e della chiesa cristiana” e, nel corso di due puntate, sono stati trasmessi dei brevi sketch infamanti. Questi offendono in maniera pesante il Cristo e la Vergine Maria, così come l’insieme del Clero: dal Papa a tutti i religiosi, passando per i cardinali e i vescovi; gli stessi ministranti non sono stati risparmiati. La radio di servizio pubblico Kol Israel, in lingua araba, ha aperto le sue trasmissioni mercoledì mattina, 18 febbraio, agli ascoltatori, e i cristiani hanno così potuto manifestare il loro shock per tali attacchi. Infatti l’ebraico non è solo la lingua degli ebrei, ma la parlano anche tutti gli arabi israeliani, e tra loro anche i cristiani. Come numerosi cittadini ebrei d’Israele, i cristiani guardano il canale 10, che trasmette programmi come “Chi vuol essere milionario”, “l’anello debole”, “Survivor”, ecc. Quale canale europeo si permetterebbe oggi di fare degli sketch antisemiti o negazionisti senza suscitare violenti moti di protesta? Quale sarebbe mai la reazione degli ebrei d’Israele e del mondo intero? E’ dunque legittimo che i cristiani d’Israele insorgano, questa volta, a nome loro e di tutti i cristiani del mondo. (…) La volontà deliberata di tale trasmissione di attaccare la fede cristiana è altrettanto scandalosa di tutti gli attacchi fatti all’ebraismo e alla Shoah. Tuttavia, non sembrano aver sconvolto molti ebrei israeliani nello stesso modo in cui essi sono sconvolti dall’antisemitismo o dal negazionismo. L’assemblea dei vescovi di Terra Santa, che rappresentano tutte le Chiese cattoliche del Paese, ha emesso mercoledì un comunicato di ferma protesta . Il comunicato, nel momento stesso in cui ringraziava coloro tra gli ebrei e i musulmani che, durante questo scandalo, hanno manifestato la loro vicinanza, ha anche ricordato che un clima anti-cristiano, più o meno latente, è percepibile nella società israeliana da alcuni anni a questa parte. E per il canale 10 non è il primo “passo falso”, in questo campo. Lo stesso comunicato lancia un appello affinché vengano prese delle misure contro questi attacchi e chi li perpetua. Si esige che il canale 10 presenti delle scuse pubbliche e non permetta che tali episodi si ripetano. Le offese messe in campo in questi sketch non lusingano certo né i loro autori né chi ne ha riso. Le molteplici confusioni sul cristianesimo che si trovano a più riprese in queste parodie sono, infatti, anche una prova che l’autore ha pensato di far ridere sulla base della propria ignoranza del cristianesimo. Infatti la maggioranza degli ebrei ignora molti aspetti riguardanti il cristianesimo. Così come, d’altronde, la maggior parte dei cristiani ha una scarsa conoscenza dell’ebraismo e delle sue correnti. Un rispetto reale, profondo, sincero e reciproco avverrà nella misura degli sforzi fatti da ciascuno per imparare a conoscersi. Da questo punto di vista, almeno, siamo in condizione di parità. (Fonte: www.custodia.org/spip.php?article5063&lang=it ) Gerusalemme: leader cattolici condannano gli attacchi contro Cristo in TV GERUSALEMME - I leader della Chiesa cattolica in Terra Santa hanno emesso un comunicato congiunto per condannare i "ripugnanti attacchi" contro Gesù Cristo e la Vergine Maria trasmessi dal canale televisivo israeliano Channel 10. Secondo quanto spiega il comunicato, emesso il 18 febbraio, "in questi giorni, durante un programma serale su Channel 10, è stata lanciata una serie di orribili offese contro la nostra fede e quindi contro noi cristiani". Il comunicato è firmato, tra gli altri, da Sua Beatitudine Fouad Twal, Patriarca latino di Gerusalemme, e da padre Pier Battista Pizzaballa, ofm, Custode di Terra Santa. "Lo spettacolo ha rivolto i suoi attacchi contro le figure più sacre del nostro credo cristiano nel tentativo, come il direttore del programma ha specificamente dichiarato, di distruggere il cristianesimo", denunciano i leader cattolici. Nel fare ciò, affermano, "Channel 10 è stato usato per profanare le figure più sacre del cristianesimo offendendo centinaia di migliaia di cristiani israeliani e milioni di cristiani in tutto il mondo". Channel 10 è una rete commerciale che ha iniziato la sue attività nel 2002. I Vescovi cattolici della Terra Santa considerano questo programma "un sintomo dei grandi problemi che affliggono la società, come l'intolleranza, il rifiuto di accettare e di rispettare gli altri e l'odio a ciò collegato". Cosa più importante, le guide delle Chiese considerano questo avvenimento "nel più ampio contesto dei continui attacchi contro i cristiani in Israele nel corso degli anni". "Solo pochi mesi fa, alcune copie del Nuovo Testamento sono state bruciate pubblicamente nel cortile di una sinagoga a Or Yehuda. Da anni, il cristianesimo fa molto per fermare alcune manifestazioni di antisemitismo, e ora i cristiani in Israele si ritrovano vittime di una manifestazione di basso profilo di anticristianesimo?", si chiedono i leader cattolici. "Mentre condanniamo questo e tutti gli altri atti di intolleranza, esortiamo tutte le parti in causa a indagare sulla questione e a prendere i provvedimenti necessari per porre fine a questa orribile profanazione della nostra fede. E' inconcepibile che questi incidenti debbano avvenire in Israele, Paese che ospita alcuni dei templi più sacri della cristianità che contano molto sui pellegrinaggi dei Paesi cristiani". I leader cattolici chiedono "al popolo israeliano e alle sue autorità di prendere le misure appropriate contro questa inaccettabile offesa e chi l'ha perpetrata". Allo stesso tempo, esortano Channel 10 "a riconoscere le sue responsabilità e a chiedere scusa ufficialmente e pubblicamente per questo incidente, non permettendo più che si ripeta". (…) "Questi programmi non hanno niente a che vedere con la libertà d'espressione, l'arte e l'intrattenimento - dichiarano -. Possono solo lavorare contro l'integrazione nazionale e l'armonia nella nostra società". "Chiediamo di esercitare la massima serietà e moderazione e di seguire le autorità ecclesiastiche nell'affrontare questo argomento così importante e delicato", concludono. (…) (Agenzia Zenit del 19.02.2009)
Aggiorniamo la notizia.

"The Tonight Show" del comico Lior Shlein. In una puntata di qualche giorno fa (intitolata "Like a Virgin") Shlein ha preso di mira la Madonna e Gesù, con gag pseudo comiche e "scoop" del tipo: "Maria non è vergine, anzi è andata a letto con un sacco di uomini...» (video). Immediata la reazione della Santa Sede, che ha chiesto (e ottenuto) la censura del programma in cui - si legge nel comunicato - "venivano ridicolizzati con parole e immagini blasfeme il Signore Gesù e la Beata Vergine Maria". Anche Daniel Rossing, direttore del Jerusalem Center for Jewish-Christian Relations, in un'intervista al SIR (Servizio informarzione religiosa) critica la trasmissione parlando di "deplorevole attacco al cuore della fede cristiana" e di "offesa ai cristiani di tutto il mondo e specialmente alla minoranza in Terra Santa". "Fatti del genere non possono essere giudicati come isolati e riguardanti solo uno sparuto gruppo di gente ignorante o un canale tv, ma piuttosto è un'ulteriore manifestazione di disprezzo per il cristianesimo nella società ebraica israeliana . Per quanto a qualcuno potrebbe sembrare comprensibile, anche alla luce della storia triste dei rapporti ebraico-cristiani e del caso del vescovo Williamson, questo atteggiamento è deplorevole e offensivo dei cristiani e rappresenta una minaccia per i cristiani locali e per la società ebraico-israeliana. Un atteggiamento che, secondo Rossing, non si limita al programma di Channel 10 e che andrebbe estirpato con un "lavoro educativo a lungo termine".


proRatzinger
00domenica 22 febbraio 2009 16:03
Insieme ai rabbini egocentrici ci si mettono anche i cardinali ora: a cominciare dal cardinale Lehmann, come detto recentemente nei miei post precedenti, a finire con il cardinale Schonbron, fortemente critico nei confronti della nomina ad ausiliare di Linz di padre Wagner. Di nuovo abbiamo assistito ad un linciaggio mediatico e di un linciaggio da parte di alcuni porporati e vescovi che non rispettano le norme liturgiche e l'obbedienza. A questi ultimi, oltre un salutare silenzio e una sforbiciata di lingua, consiglio di leggere il Codice di Diritto Canonico:
Can. 332 - §1. Il Sommo Pontefice ottiene la potestà piena e suprema sulla Chiesa con l'elezione legittima, da lui accettata, insieme con la consacrazione episcopale. Di conseguenza l'eletto al sommo pontificato che sia già insignito del carattere episcopale ottiene tale potestà dal momento dell'accettazione. Che se l'eletto fosse privo del carattere episcopale, sia immediatamente ordinato Vescovo.

§2. Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti.

Can. 333 - §1. Il Romano Pontefice, in forza del suo ufficio, ha potestà non solo sulla Chiesa universale, ma ottiene anche il primato della potestà ordinaria su tutte le Chiese particolari e i loro raggruppamenti; con tale primato viene contemporaneamente rafforzata e garantita la potestà propria, ordinaria e immediata che i Vescovi hanno sulle Chiese particolari affidate alla loro cura.

§2. Il Romano Pontefice, nell'adempimento dell'ufficio di supremo Pastore della Chiesa, è sempre congiunto nella comunione con gli altri Vescovi e anzi con tutta la Chiesa; tuttavia egli ha il diritto di determinare, secondo le necessità della Chiesa, il modo, sia personale sia collegiale, di esercitare tale ufficio.

§3. Non si dà appello né ricorso contro la sentenza o il decreto del Romano Pontefice.
proRatzinger
00martedì 3 marzo 2009 15:49
Anche su Wagner, dopo contestazioni varie, ieri il Pontefice ha dispensato il presule dalla nomina episcopale. Senza commentare, anche perchè ormai il mio pensiero è chiaro, in questa discussione-monologo dove degli altri utenti non c'è traccia, vorrei continuare postando un articolo di Paolo Rodari.
proRatzinger
00martedì 3 marzo 2009 15:51
Inchiesta. Il governo della curia romana al tempo di Ratzinger: difficoltà e strategie per il dopo “caso Williamson” (Parte I)

La crisi che nelle ultime settimane ha investito violentemente il governo della curia romana - oltre alle critiche ebraiche per la preghiera del venerdì santo reintrodotta col Motu proprio Summorum Pontificum e alle polemiche austriache per le dimissioni che è stato costretto a rendere (sono state accettate ieri dal Papa) il vescovo ausiliare di Linz Gerhard Maria Wagner, importanti sono i malumori per la scomunica revocata ai lefebvriani e al vescovo negazionista quanto alla Shoah Richard Williamson - sembra non aver toccato più di tanto Joseph Ratzinger. Una dimostrazione di ciò la si è avuta sabato scorso. Mentre la maggioranza dei presuli e dei porporati parlava della necessità di “sfruttare” il caso Williamson per mettere in campo quella riforma della curia che porti nei posti di comando gente più capace di tradurre in azioni di governo la mente illuminata del Pontefice, lui, Benedetto XVI, ha preso una decisione che è sembrata andare nella direzione opposta. Invece di mantenere l’accorpamento di due dicasteri sulla cui utilità sono in molti a nutrire dubbi - il pontificio consiglio di Giustizia e Pace e quello per la Pastorale dei Migranti e degli Itineranti - li ha di nuovo smembrati, lasciando al cardinale Renato Raffaele Martino (anche se ancora per poco) Giustizia e Pace e affidando i Migranti e gli Itineranti al segretario della congregazione per le Chiese Orientali, ovvero monsignor Antonio Maria Vegliò, presule di 71 anni compiuti.
Un controsenso, dicono in molti. Possibile? Possibile che il Papa non si renda conto che è di altri interventi che la macchina della Chiesa necessita? Possibile non capisca che quella «sporcizia» che nel 2005 - nella Via Crucis che aveva preceduto di pochi giorni il conclave che lo elesse al soglio di Pietro - aveva denunciato essere presente nella Chiesa, sia ora da spazzare via con atti di comando forti, trancianti? Possibile che non comprenda come, senza un governo capace e competente, azioni come la lectio di Ratisbona, la nomina del polacco Stanislaw Wielgus ad arcivescovo di Varsavia, la revoca della scomunica ai lefebvriani, e ancora (tanto per fare qualche esempio significativo) la puntualizzazione della differenza esistente tra le «chiese» cattoliche e ortodosse e le «comunità» protestanti (quante polemiche seguirono il documento “Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa” redatto nel 2007 dalla congregazione per la Dottrina della Fede!), non possano non essere destinate a subire forti critiche le quali, proprio perché provenienti anche dall’interno della Chiesa, ne minano valore e importanza?
Non si può rispondere a queste domande senza capire come Benedetto XVI concepisca il governo della Chiesa, lui che più di altri cardinali ne conosce meccanismi e ingranaggi. E, per farlo, occorre necessariamente tornare al 1968, a quell’Einführung in das Christentum (Introduzione al cristianesimo), nel quale, a un certo punto (pagine 333-334 dell’edizione Queriniana-Vaticana, 2005), egli scrive queste parole: «I veri credenti non danno mai eccessivo peso alla lotta per la riorganizzazione delle forme ecclesiali. Essi vivono di ciò che la Chiesa è sempre. E se si vuole sapere che cosa realmente sia la Chiesa, bisogna andare da loro. La Chiesa, infatti, non è per lo più là dove si organizza, si riforma, si dirige, bensì è presente in coloro che credono con semplicità, ricevendo in essa il dono della fede che diviene per loro fonte di vita. [...] Ciò non vuol dire che bisogna lasciar tutto così com’è e sopportarlo così com’è. Il sopportare può esser anche un processo altamente attivo…».
Quella di Ratzinger non è una scomunica dell’attività governativa della Chiesa. Ma, semmai, è una presa di coscienza che non è innanzitutto lì, nell’attività di comando, che la Chiesa gioca la sua partita più decisiva. Il Ratzinger Pontefice, l’uomo delle grandi idee, di una visione della modernità filosofica ma insieme religiosa e pneumatica, dell’ancoraggio alla rivelazione, ai padri della Chiesa, il sacerdote che ha vissuto il Vaticano II in pienezza d’effervescenza e che gode di una preparazione teologica sinfonica come pochi all’interno dell’attuale collegio cardinalizio, è ben consapevole del fatto che gli servano i giusti canali per tradurre il proprio pensiero in azioni di governo, ma è anche consapevole che il governo, il comando, non è tutto e soprattutto non è il tutto del suo pontificato. Nonostante vi sia chi ritiene che adesso, nelle scelte che Ratzinger sarà chiamato a prendere nel post “caso Williamson” - perché qualche decisione importante verrà pur presa: sono, infatti, parecchi i capi dicastero in scadenza, e di loro parleremo nelle prossime puntate di questa inchiesta - egli si giochi la credibilità dell’intero pontificato, lui, Benedetto XVI, è invece conscio che la partita più importante si gioca altrove, ovvero nel popolo che crede, che vive la fede con semplicità. Ciò non significa che per il Papa il “lavoro sporco”, quello del governo, sia da disprezzare, ma significa che quest’ultimo risiede su un piano inferiore rispetto alla prima attenzione che tutti, cardinali, vescovi e semplici fedeli debbono avere: la cura della fede, l’unico dono che porta la vita rigenerando e riformando, dall’interno e all’occorrenza, la Chiesa stessa.
Non si può comprendere Benedetto XVI e il suo pontificato senza tornare qui. Ogni analisi sul governo della Chiesa di Ratzinger non può non avere questa premessa. Non per niente, quanto a governo, quanto a spostamento di uomini da un posto all’altro, la pazienza di Ratzinger è proverbiale, a tratti addirittura eccessiva: «sopportazione attiva» è il termine che lui usa in Einführung in das Christentum. Lui è fatto così. Lui che dal 25 novembre 1981 al 19 aprile 2005 è stato prefetto della Dottrina della Fede, il dicastero dove sono custodite pagine e pagine dettagliate riguardanti tutti gli uomini di governo del Vaticano, sulle nomine, su quella riforma della curia attesa e auspicata da tutti e che lui più di altri potrebbe mettere in campo con cognizione di causa, ha deciso d’essere magnanimo. Ha deciso di lasciare in posti cruciali uomini probabilmente meno competenti di altri, al fine di salvaguardare le singole sensibilità di ognuno e, insieme, il desiderio di tutti d’essere, più o meno, utili.
Certo, a volte servirebbe altro. E Ratzinger lo sa, tanto che nelle prossime settimane finalmente qualcosa si muoverà. Anche lui è stato ed è consapevole di quanto ci sarebbe bisogno di una scure per tagliare il marcio e far crescere un nuovo germoglio. Ma spesso ha voluto non agire. Perché lui, Benedetto XVI, preferisce avere pazienza, consapevole - qui sta il punto - che il governo non è tutto e che sopportare può comunque essere un’azione che porta frutti postivi.
E forse, oggi, molti di coloro che accusano il Papa e il suo più stretto collaboratore, il segretario di Stato Tarcisio Bertone, di una certa inefficienza rimpiangendo, nel contempo, il pontificato precedente, farebbero bene a ricordare. [G]Molti di coloro che oggi rimpiangono il governo wojtyliano (sia il primo Wojtyla, quello con Agostino Casaroli segretario di Stato, che il secondo, quello con Angelo Sodano), infatti, sono gli stessi che con Giovanni Paolo II al comando rimpiangevano Paolo VI, Giovani XXIII e, addirittura, Albino Luciani: «Quanto sarebbe potuto avvenire - dicono costoro - se Luciani fosse vissuto più a lungo…». Ma dimenticano che anche il governo di Wojtyla aveva dei punti deboli. Anche Giovanni Paolo II «Il Grande», per usare una definizione coniata dal cardinale Angelo Sodano nella messa di suffragio celebrata per lui il 4 aprile 2005, anche il Papa di un indiscusso carisma e sguardo profetico, dovette fare i conti con una gestione del potere non sempre facile, una gestione che dopo ventisei anni e mezzo di pontificato rappresenta un lascito pesante per le spalle, pur larghe, del suo successore. (continua)
proRatzinger
00mercoledì 4 marzo 2009 17:51
Inchiesta. Il governo della curia romana al tempo di Ratzinger: difficoltà e strategie per il dopo “caso Williamson” (Parte II)
mar 4, 2009 il Riformista 13 Comments

Ai tempi di Giovanni Paolo II governare la curia romana era difficile almeno tanto quanto oggi. Nella prima parte del suo pontificato Wojtyla dovette lavorare con Agostino Casaroli, il cardinale segretario di Stato eminente rappresentate in Vaticano della Ostpolitik di brandtiana memoria. Una linea poi portata avanti dal cardinale Achille Silvestrini, per svariati anni segretario del consiglio per gli Affari Pubblici e dal suo vice, oggi arcivescovo di Vilnius, il cardinale Audrys Juozas Backis. In sostanza, il Papa della resistenza al regime comunista, così come gliela aveva insegnata il primate di Polonia Stephan Wishinsky, dovette collaborare col principale fautore nella Santa Sede di accordi, concessioni e aperture verso i paesi del blocco sovietico. Furono due visioni politico-ecclesiologiche diverse e divergenti a incontrarsi e, spesso, a scontrarsi.
E anche col successore di Casaroli, il cardinale Angelo Sodano, il lavoro non fu semplice. Da una parte il Papa era aiutato nel governo, ogni giorno con sempre maggior peso, dal suo segretario particolare don Stanislaw Dziwisz. Dall’altra un contropotere rispetto a questa unione era rappresentato proprio da Sodano, il quale col duo Wojtyla-Dziwisz, più che collaborare, cercava di trattare. Soprattutto negli ultimi anni dell’era Wojtyla, quando il Pontefice sempre più ammalato faticava a tenere le fila di tutto, era anche la bravura del portavoce Joaquin Navarro-Valls a mascherare tante difficoltà. Una bravura della quale oggi si sente fortemente la mancanza.
Oggi, appunto: le cose vanno diversamente rispetto al passato. Il duo Ratzinger-Bertone è parecchio affiatato. Per molto tempo hanno lavorato assieme quando Ratzinger era prefetto della congregazione per la Dottrina delle Fede e Bertone ne era il segretario. E oggi nessuno può dire che il segretario di Stato non sia un fedelissimo del Papa.
Eppure, le critiche non mancano. Eppure, qualche evidente problema di governo c’è. Ed è principalmente a motivo di un governo non pienamente efficiente, prima che per colpe di mala comunicazione, che la Chiesa è dovuta sbandare più volte e in modo pericoloso. Soprattutto tre anni fa con la crisi diplomatica verificatasi col mondo islamico a seguito della lectio di Ratisbona. E poi quest’anno, col caso Richard Williamson che ha inquinato parecchio i rapporti, per la verità atavicamente rattrappiti, con gli ebrei.
Il problema di governo è ascrivibile da una parte alla segreteria di Stato, dall’altra a tutti quei capi dicastero che, oramai in età pensionabile, sono chiamati a responsabilità probabilmente troppo onerose per le loro energie. Dei capi dicastero in scadenza e della nuova curia che il Papa potrebbe disegnare nel 2009 parleremo domani, nell’ultima puntata di questa inchiesta. Qui parliamo della segreteria di Stato dalla quale, come hanno sostenuto non a torto diversi osservatori, Benedetto XVI dovrebbe iniziare la sua personale cura a seguito del caso Williamson.
Ratzinger ha scelto Bertone perché è una persona di cui sa che si può fidare. E in futuro non è di lui che farà a meno. Anche perché lo stesso Pontefice è consapevole di come parecchia mala gestione nell’attuale segreteria di Stato non sia imputabile a coloro che ne hanno la responsabilità ma anche e soprattutto a problematiche strutturali. Quali? Occorre partire da Sisto V. Papa Felice Peretti, alla fine del 1500, ebbe la brillante intuizione di impostare una gestione del governo della curia romana altamente democratica, diciamo orizzontale. La segreteria di Stato non era, come invece è oggi, un super ministero. Ogni capo dicastero rendeva direttamente conto del proprio operato al Papa e tutti erano di pari grado. E così fino a Giovanni XXIII. Paolo VI, invece, forte di svariati anni trascorsi a lavorare in segreteria di Stato prima di partire alla volta di Milano, decise una volta salito al soglio di Pietro che era opportuno, per una maggiore praticità, interrompere questo sistema di governo e far sì che alla segreteria di Stato venisse concesso maggiore potere e, in particolare, far sì che fungesse da cono di bottiglia per le richieste che i vari capi dicastero della curia volevano fargli giungere. E in questo modo una nuova modalità di governo della curia romana venne introdotta, una modalità che ha portato il segretario di Stato ad avere sempre maggiore peso e potere.
Oggi è questo peso e questo potere che Bertone patisce. Perché un conto era essere segretario di Stato venti anni fa quando il mondo era diverso e le problematiche che la Chiesa aveva da affrontare non dovevano essere risolte con la velocità e la prontezza che è richiesta ora. Un conto era essere segretario di Stato nell’ultimo decennio del pontificato di Wojtyla quando tutto quello che il Papa aveva fatto e tutto quello che stava vivendo mettevano in secondo piano eventuali errori di governo. Altro conto è essere il primo collaboratore del Papa oggi, durante un Pontificato particolarmente inviso ai media e ai settori più progressisti della Chiesa, i quali continuano a vedere nell’ancoraggio di Benedetto XVI al primato della verità una volontà di chiusura e di ritorno al passato. Bertone, poi, non è propriamente un diplomatico. Ha un profilo meno navigato quanto a gestione del potere. È un salesiano più avvezzo al contatto con la gente, coi fedeli. E questa sua caratteristica senz’altro non l’aiuta.
Oltre a una questione strutturale e, dunque, al ruolo che la segreteria di Stato ricopre in un’organizzazione della curia di tipo verticale, c’è un problema di uomini, e quindi dei più stretti collaboratori di Bertone. Molti sono cresciuti in segreteria di Stato ai tempi di Sodano e, dunque, non sono propriamente affiatati con lui. Ed è probabilmente qui, a livello dello staff di Bertone, che Benedetto XVI dovrà necessariamente intervenire per cercare di far sì che il suo principale collaboratore possa essere supportato a dovere.
I primi a partire dovrebbero essere quattro pari grado. Per Paolo Sardi, l’arcivescovo che per anni ha scritto i testi dei discorsi di Wojtyla, il destino è segnato ed è pure prestigioso: diverrà patrono dell’ordine di Malta e, dunque, giungerà presto alla berretta cardinalizia. Per il capo dell’“ufficio del personale”, cioè monsignor Carlo Maria Viganò, si parla invece di un’importante nunziatura all’estero. Poi ci sono il vice del sostituto per gli affari generali, Fernando Filoni, e il vice del segretario del rapporto con gli Stati Dominique Mamberti, ovvero Pietro Parolin e Gabriele Giordano Caccia. Anche per loro si parla di promozioni in altri lidi. Discorso a parte lo merita il torinese Gianfranco Piovano: incontrastato dominatore di tutte le finanze della segreteria di Stato, domina la scena da più di trent’anni e da cinque anni avrebbe dovuto lasciare per limiti di età. Non c’è stata assunzione oltre il Tevere che non sia passata dalle sue mani. Ma pare che, dopo così tanti anni, lascerà anche lui. Infine, Fernando Filoni. Questi è stato portato in segreteria di Stato da Bertone il 9 giungo 2007 quando Leonardo Sandri divenne prefetto delle Chiese Orientali. E ora che i due - Bertone e Filoni - faticano a lavorare in tandem, serve una nuova soluzione. È qui forse la matassa più difficile da sbrogliare. (2.continua)
proRatzinger
00giovedì 5 marzo 2009 16:58
Inchiesta. Il governo della curia romana al tempo di Ratzinger: difficoltà e strategie per il dopo “caso Williamson” (Parte III)
mar 5, 2009 il Riformista 19 Comments

Perché il governo della curia romana funzioni a dovere è necessario che tutti i canali del potere siano ben oliati, comunichino tra di loro senza intoppi e, soprattutto, senza che nessuno remi dalla parte sbagliata. Nei recenti casi di mal governo vaticano, invece - dal caso Ratisbona al caso Williamson, tanto per citare due situazioni note a tutti -, si è avuta l’impressione che a giocare fossero tante monadi separate e, insieme, incapaci di fare squadra e spiegare al mondo, e soprattutto alla Chiesa, la ragionevolezza delle decisioni prese.
Coloro che nella curia romana sono chiamati a supportare il Papa nella difficile gestione del potere sono innanzitutto i prefetti delle nove congregazioni vaticane. Un tempo, fino alla riforma messa in campo da Paolo VI, la congregazione della curia con più peso era senz’altro quella che sull’annuario pontificio veniva chiamata “La Suprema”. Ovvero, la congregazione per la Dottrina della Fede. Il prefetto era direttamente il Pontefice, e cioè colui che quando afferma una dottrina o un dogma gode del principio dell’infallibilità. Oggi il Papa ha conservato sulla congregazione un’attività di super visione, seppure la responsabilità della congregazione sia affidata a un prefetto il quale, ogni settimana, incontra il Pontefice per dipanare le questioni più importanti. È probabilmente per il fatto che con questa congregazione Benedetto XVI può dialogare con più frequenza che con altre, che Ratzinger ha deciso di nominare prefetto lo statunitense William Joseph Levada: non un “fulmine di guerra”, ma comunque un porporato fedele.
Oggi la congregazione strategicamente più importante e che necessariamente deve procedere in perfetta sintonia col Pontefice e con il segretario di Stato è quella dei Vescovi. Il cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della congregazione, ha il potere non da poco di nominare i vescovi. È lui, infatti, che propone al Papa una terna di nomi per gli incarichi vacanti decidendo chi e in quale ordine sia degno di farvi parte. Decide i trasferimenti e le promozioni dei vescovi. Le dimissioni per limiti di età. E, ancora, decide i cardinali: nel senso che quando promuove un presule in una diocesi che prevede la berretta cardinalizia, lo promuove di fatto al cardinalato.
Chi è il cardinale Re? Bresciano, visse l’escalation più importante della sua carriera quando nel 1989 Giovanni Paolo II lo nominò sostituto per gli affari generali della segreteria di Stato. In sostanza, il posto perfetto per succedere ad Angelo Sodano quando questi avesse lasciato la conduzione della stessa segreteria. Quando però il cardinale Lucas Moreira Neves lasciò la guida dei Vescovi, Re non ci pensò su più di tanto ad accettare la proposta di Wojtyla di esserne lui il successore.
Alla congregazione dei Vescovi, Re adottò inizialmente una politica filo wojtyliana. In sostanza, al contropotere rispetto al Papa rappresentato da Sodano egli mise in campo una politica di nomine filo papale, in sintonia perfetta (almeno inizialmente) con Stanislaw Dziwisz e col presidente della conferenza episcopale italiana Camillo Ruini.
Poi qualcosa è cambiato. Re, che di per sé ha sempre conservato i numeri necessari per sostituire Sodano al momento opportuno, una volta arrivato al soglio di Pietro Joseph Ratzinger ha compreso che la segreteria di Stato non gli sarebbe mai stata affidata. E qui, usciti di scena Dziwisz e, poco dopo, Ruini, ha virato verso una politica più disponibile nei confronti delle istanze provenienti dalle varie conferenze episcopali. Spieghiamo meglio: nel mondo, più che in Italia, le conferenze episcopali cercano di avere un potere reale. Le cupole delle conferenze e i nunzi vaticani che alle conferenze necessariamente si riferiscono, infatti, svolgono una costante politica di pressione sulla curia romana affinché i vescovi delle rispettive diocesi siano nominati tenendo conto del proprio indice di gradimento. E se le conferenze episcopali trovano un prefetto dei Vescovi disposto ad ascoltarle, il gioco è fatto.
Se c’è una pecca nella lunga, e a suo modo efficiente, gestione della congregazione dei Vescovi da parte di Re, risiede proprio qui: nella troppa accondiscendenza accordata alle istanze delle varie conferenze episcopali. Un’accondiscendenza che oggi Benedetto XVI paga a caro prezzo. Non è forse per le pressioni della conferenza episcopale austriaca guidata dal cardinale Christoph Schönborn che il Papa è stato costretto ad accettare le dimissioni del vescovo ausiliare di Linz, Gerhard Wagner? La stessa cosa non è forse successa con Stanislaw Wielgus nel 2006, costretto a dimettersi 36 ore dopo che il Papa lo aveva nominato arcivescovo di Varsavia? E, al contrario, non è forse per le pressioni dei vescovi di vari paesi del mondo che nei posti di comando della Chiesa spesso non vengono messi i migliori quanto coloro che sono più graditi ai leader dei rispettivi episcopati?
Il cardinale Re ha la sua parte di responsabilità anche nel caso Williamson. Se è vero che il decreto di revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani porta la sua firma, occorre che se ne assuma la responsabilità fino in fondo, magari ammettendo che una corretta valutazione delle criticità in gioco non è stata fatta. E magari sostenendo con più forza i motivi del decreto da lui firmato: non tanto la volontà di reintrodurre nella Chiesa una fazione anti-ebraica quanto il desiderio di abbattere una prima barriera sulla strada ancora parecchio lunga che porta i lefebvriani alla piena comunione con Roma.
Re ha compito 75 anni lo scorso 30 gennaio. In curia c’è chi si aspettava che avrebbe adottato la medesima politica fatta propria dal suo predecessore: si ritirò nel 2000, il giorno in cui compì 75 anni. Se avesse agito così, già in queste settimane sarebbe stato più facile far dimettere quei capi dicastero e quei presuli entrati in età pensionabile: con un prefetto dei Vescovi ancora in sella a 75 anni, tutto è più difficile. E lo è ancora di più con un segretario dei Vescovi, come l’arcivescovo Francesco Monterisi, anch’egli 75enne.
La crisi che sta attraversando la curia romana è principalmente qui, a livello di una gestione del potere poco adeguata ai tempi e allo spirito dell’attuale pontificato. Poi, certo, c’è anche un problema di comunicazione. C’è la difficoltà di padre Federico Lombardi a gestire congiuntamente sala stampa (Joaquin Navarro-Valls aveva solo questa responsabilità), Radio Vaticana, centro televisivo vaticano e il compito di assistente del preposito generale dei Gesuiti: troppi incarichi per una sola persona. Ma è un problema che, seppure non trascurabile - a breve il Papa correrà ai ripari - viene dopo il mal governo.
Partendo dalla congregazione dei vescovi, Benedetto XVI ha la possibilità in questo 2009 di sostituire parecchia gente nella curia romana e di creare così un sistema che sappia seguirlo con maggiore lucidità nelle sue scelte. Il 23 settembre compie 75 anni il prefetto della congregazione dei Religiosi, il cardinale Franc Rodé e, l’8 agosto, li compie il prefetto del Clero, il cardinale Claudio Hummes. Se è vero che, come scrisse il benedettino Columbia Marmion, una vera riforma del clero e degli ordini religiosi non può che venire da un sacerdote secolare, è evidente che in queste due decisive congregazioni l’uomo giusto è tra il clero che deve essere pescato.
Ma 75 anni li hanno già compiuti anche altri importanti esponenti della curia. Innanzitutto lo statunitense James Francis Stafford, penitenziere maggiore della Penitenzieria Apostolica. Quindi il cardinale Javier Lozano Barragán, presidente del pontificio consiglio per la Pastorale della Salute. E ancora, il cardinal Renato Raffaele Martino, presidente di Iustitia et Pax. E, infine, il cardinale Walter Kasper, presidente della promozione dell’Unità dei Cristiani: oggi compie 76 anni. (3.fine)
proRatzinger
00giovedì 12 marzo 2009 16:53
Grande Benedetto XVI!!! [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] Un Papa con i controattributi!!!! Ecco il servo della vigna del Signore che risponde a tutti quei vescovi e cardinali che hanno osato andargli contro, che non si sono fatti scrupolo ad infangare il buon nome del Sommo tra i Sommi. Pertanto, per uso del forum, metto di seguito la lettera firmata in data 10 Marzo 2009 e pubblicata oggi 12 Marzo 2009 in cui Benedetto XVI esprime il suo pensiero in merito alle polemiche sul caso Williamson.
proRatzinger
00giovedì 12 marzo 2009 16:54
LETTERA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Cari Confratelli nel ministero episcopale!
La remissione della scomunica ai quattro Vescovi, consacrati nell’anno 1988 dall’Arcivescovo Lefebvre senza mandato della Santa Sede, per molteplici ragioni ha suscitato all’interno e fuori della Chiesa Cattolica una discussione di una tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata. Molti Vescovi si sono sentiti perplessi davanti a un avvenimento verificatosi inaspettatamente e difficile da inquadrare positivamente nelle questioni e nei compiti della Chiesa di oggi. Anche se molti Vescovi e fedeli in linea di principio erano disposti a valutare in modo positivo la disposizione del Papa alla riconciliazione, a ciò tuttavia si contrapponeva la questione circa la convenienza di un simile gesto a fronte delle vere urgenze di una vita di fede nel nostro tempo. Alcuni gruppi, invece, accusavano apertamente il Papa di voler tornare indietro, a prima del Concilio: si scatenava così una valanga di proteste, la cui amarezza rivelava ferite risalenti al di là del momento. Mi sento perciò spinto a rivolgere a voi, cari Confratelli, una parola chiarificatrice, che deve aiutare a comprendere le intenzioni che in questo passo hanno guidato me e gli organi competenti della Santa Sede. Spero di contribuire in questo modo alla pace nella Chiesa.

Una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica. Il gesto discreto di misericordia verso quattro Vescovi, ordinati validamente ma non legittimamente, è apparso all’improvviso come una cosa totalmente diversa: come la smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei, e quindi come la revoca di ciò che in questa materia il Concilio aveva chiarito per il cammino della Chiesa. Un invito alla riconciliazione con un gruppo ecclesiale implicato in un processo di separazione si trasformò così nel suo contrario: un apparente ritorno indietro rispetto a tutti i passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio – passi la cui condivisione e promozione fin dall’inizio era stato un obiettivo del mio personale lavoro teologico. Che questo sovrapporsi di due processi contrapposti sia successo e per un momento abbia disturbato la pace tra cristiani ed ebrei come pure la pace all’interno della Chiesa, è cosa che posso soltanto deplorare profondamente. Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema. Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie. Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco. Proprio per questo ringrazio tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia, che – come nel tempo di Papa Giovanni Paolo II – anche durante tutto il periodo del mio pontificato è esistita e, grazie a Dio, continua ad esistere.

Un altro sbaglio, per il quale mi rammarico sinceramente, consiste nel fatto che la portata e i limiti del provvedimento del 21 gennaio 2009 non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro al momento della sua pubblicazione. La scomunica colpisce persone, non istituzioni. Un’Ordinazione episcopale senza il mandato pontificio significa il pericolo di uno scisma, perché mette in questione l’unità del collegio episcopale con il Papa. Perciò la Chiesa deve reagire con la punizione più dura, la scomunica, al fine di richiamare le persone punite in questo modo al pentimento e al ritorno all’unità. A vent’anni dalle Ordinazioni, questo obiettivo purtroppo non è stato ancora raggiunto. La remissione della scomunica mira allo stesso scopo a cui serve la punizione: invitare i quattro Vescovi ancora una volta al ritorno. Questo gesto era possibile dopo che gli interessati avevano espresso il loro riconoscimento in linea di principio del Papa e della sua potestà di Pastore, anche se con delle riserve in materia di obbedienza alla sua autorità dottrinale e a quella del Concilio. Con ciò ritorno alla distinzione tra persona ed istituzione. La remissione della scomunica era un provvedimento nell’ambito della disciplina ecclesiastica: le persone venivano liberate dal peso di coscienza costituito dalla punizione ecclesiastica più grave. Occorre distinguere questo livello disciplinare dall’ambito dottrinale. Il fatto che la Fraternità San Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa, non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali. Finché la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri non esercitano ministeri legittimi nella Chiesa. Bisogna quindi distinguere tra il livello disciplinare, che concerne le persone come tali, e il livello dottrinale in cui sono in questione il ministero e l’istituzione. Per precisarlo ancora una volta: finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri – anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica – non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa.

Alla luce di questa situazione è mia intenzione di collegare in futuro la Pontificia Commissione "Ecclesia Dei" – istituzione dal 1988 competente per quelle comunità e persone che, provenendo dalla Fraternità San Pio X o da simili raggruppamenti, vogliono tornare nella piena comunione col Papa – con la Congregazione per la Dottrina della Fede. Con ciò viene chiarito che i problemi che devono ora essere trattati sono di natura essenzialmente dottrinale e riguardano soprattutto l’accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei Papi. Gli organismi collegiali con i quali la Congregazione studia le questioni che si presentano (specialmente la consueta adunanza dei Cardinali al mercoledì e la Plenaria annuale o biennale) garantiscono il coinvolgimento dei Prefetti di varie Congregazioni romane e dei rappresentanti dell’Episcopato mondiale nelle decisioni da prendere. Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 – ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità. Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive.

Spero, cari Confratelli, che con ciò sia chiarito il significato positivo come anche il limite del provvedimento del 21 gennaio 2009. Ora però rimane la questione: Era tale provvedimento necessario? Costituiva veramente una priorità? Non ci sono forse cose molto più importanti? Certamente ci sono delle cose più importanti e più urgenti. Penso di aver evidenziato le priorità del mio Pontificato nei discorsi da me pronunciati al suo inizio. Ciò che ho detto allora rimane in modo inalterato la mia linea direttiva. La prima priorità per il Successore di Pietro è stata fissata dal Signore nel Cenacolo in modo inequivocabile: "Tu … conferma i tuoi fratelli" (Lc 22, 32). Pietro stesso ha formulato in modo nuovo questa priorità nella sua prima Lettera: "Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (1 Pt 3, 15). Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Gv 13, 1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più.

Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo. Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio. Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani – per l’ecumenismo – è incluso nella priorità suprema. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce – è questo il dialogo interreligioso. Chi annuncia Dio come Amore "sino alla fine" deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia – è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’Enciclica Deus caritas est.

Se dunque l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie. Che il sommesso gesto di una mano tesa abbia dato origine ad un grande chiasso, trasformandosi proprio così nel contrario di una riconciliazione, è un fatto di cui dobbiamo prendere atto. Ma ora domando: Era ed è veramente sbagliato andare anche in questo caso incontro al fratello che "ha qualche cosa contro di te" (cfr Mt 5, 23s) e cercare la riconciliazione? Non deve forse anche la società civile tentare di prevenire le radicalizzazioni e di reintegrare i loro eventuali aderenti – per quanto possibile – nelle grandi forze che plasmano la vita sociale, per evitarne la segregazione con tutte le sue conseguenze? Può essere totalmente errato l’impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, così da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme? Io stesso ho visto, negli anni dopo il 1988, come mediante il ritorno di comunità prima separate da Roma sia cambiato il loro clima interno; come il ritorno nella grande ed ampia Chiesa comune abbia fatto superare posizioni unilaterali e sciolto irrigidimenti così che poi ne sono emerse forze positive per l’insieme. Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi, 6 seminari, 88 scuole, 2 Istituti universitari, 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa? Penso ad esempio ai 491 sacerdoti. Non possiamo conoscere l’intreccio delle loro motivazioni. Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui e con Lui il Dio vivente. Possiamo noi semplicemente escluderli, come rappresentanti di un gruppo marginale radicale, dalla ricerca della riconciliazione e dell’unità? Che ne sarà poi?

Certamente, da molto tempo e poi di nuovo in quest’occasione concreta abbiamo sentito da rappresentanti di quella comunità molte cose stonate – superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi ecc. Per amore della verità devo aggiungere che ho ricevuto anche una serie di testimonianze commoventi di gratitudine, nelle quali si rendeva percepibile un’apertura dei cuori. Ma non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede; nella consapevolezza della promessa che le è stata data? Non dovremmo come buoni educatori essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze? E non dobbiamo forse ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura? A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il Papa – perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo.

Cari Confratelli, nei giorni in cui mi è venuto in mente di scrivere questa lettera, è capitato per caso che nel Seminario Romano ho dovuto interpretare e commentare il brano di Gal 5, 13 – 15. Ho notato con sorpresa l’immediatezza con cui queste frasi ci parlano del momento attuale: "Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!" Sono stato sempre incline a considerare questa frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo. Sotto certi aspetti può essere anche così. Ma purtroppo questo "mordere e divorare" esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata. È forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore? Nel giorno in cui ho parlato di ciò nel Seminario maggiore, a Roma si celebrava la festa della Madonna della Fiducia. Di fatto: Maria ci insegna la fiducia. Ella ci conduce al Figlio, di cui noi tutti possiamo fidarci. Egli ci guiderà – anche in tempi turbolenti. Vorrei così ringraziare di cuore tutti quei numerosi Vescovi, che in questo tempo mi hanno donato segni commoventi di fiducia e di affetto e soprattutto mi hanno assicurato la loro preghiera. Questo ringraziamento vale anche per tutti i fedeli che in questo tempo mi hanno dato testimonianza della loro fedeltà immutata verso il Successore di san Pietro. Il Signore protegga tutti noi e ci conduca sulla via della pace. È un augurio che mi sgorga spontaneo dal cuore in questo inizio di Quaresima, che è tempo liturgico particolarmente favorevole alla purificazione interiore e che tutti ci invita a guardare con speranza rinnovata al traguardo luminoso della Pasqua.

Con una speciale Benedizione Apostolica mi confermo

Vostro nel Signore


BENEDETTO PP. XVI


Dal Vaticano, 10 Marzo 2009
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